Gabriel García Márquez. DODICI RACCONTI RAMINGHI. INDICE. Premessa. Perché dodici, perché racconti e perché raminghi: pagina 3. Buon viaggio, signor presidente: pagina 11. La santa: pagina 49. L'aereo della bella addormentata: pagina 70. Mi offro per sognare: pagina 79. «Sono venuta solo per telefonare»: pagina 89. Spaventi di agosto: pagina 113. Maria dos Prazeres: pagina 118. Diciassette inglesi avvelenati: pagina 139. Tramontana: pagina 158. L'estate felice della signora Forbes: pagina 166. La luce è come l'acqua: pagina 185. La traccia del tuo sangue sulla neve: pagina 191. Premessa. Perché dodici, perché racconti e perché raminghi. I dodici racconti di questo libro sono stati scritti nel corso degli ultimi diciotto anni. Prima della loro forma attuale, cinque sono stati articoli di giornale e sceneggiature cinematografiche, e uno è stato un serial televisivo. Un altro lo raccontai quindici anni fa durante un'intervista registrata, e l'amico cui l'avevo raccontato poi lo trascrisse e lo pubblicò, e adesso l'ho riscritto a partire da quella versione. E' stata una strana esperienza creativa che merita di essere spiegata, anche solo perché i bambini che da grandi vogliono diventare scrittori sappiano fin d'ora quanto è insaziabile e corrosivo il vizio di scrivere. La prima idea mi venne all'inizio degli anni Settanta, a proposito di un sogno chiarificatore fatto dopo cinque anni che vivevo a Barcellona. Avevo sognato di assistere al mio funerale, a piedi, camminando in mezzo a un gruppo di amici vestiti a lutto stretto, ma in vena di bagordi. Sembravamo tutti felici di stare insieme. E io più di ogni altro, per via di quella grata occasione che mi offriva la morte di ritrovarmi con i miei amici dell'America latina, i più vecchi, i più amati, quelli che non vedevo da più tempo. Al termine della cerimonia, mentre cominciavano ad andarsene, io avevo tentato di seguirli, ma uno di loro mi aveva fatto notare con una severità risoluta che per me la festa era finita. «Sei l'unico che non può andarsene» mi aveva detto. Solo allora avevo capito che morire è non ritrovarsi mai più con gli amici. Non so perché, quel sogno esemplare lo interpretai come una presa di coscienza della mia identità, e pensai che era un buon punto di avvio per scrivere sulle cose strane che succedono ai latinoamericani in Europa. Fu un'idea incoraggiante, perché poco prima avevo finito "L'autunno del patriarca", che è stato il mio lavoro più arduo e arrischiato, e non sapevo come proseguire. Per circa due anni presi appunti sugli argomenti che mi passavano per la testa senza ancora decidere cosa farne. Siccome non avevo in casa un blocco per appunti la sera in cui decisi di cominciare, i miei figli mi prestarono un quaderno da scuola. Erano loro che lo portavano negli zainetti di libri durante i nostri viaggi frequenti per timore che si perdesse. Arrivai ad avere sessantaquattro argomenti annotati con così tanti dettagli che mi mancava solo di scriverli. Fu a Città del Messico, al mio ritorno da Barcellona, nel 1974, che mi si chiarì che questo libro non doveva essere un romanzo, come mi era sembrato all'inizio, bensì una raccolta di racconti brevi, basati su fatti giornalistici ma redenti dalla loro condizione mortale grazie alle astuzie della poesia. Fino ad allora avevo scritto tre libri di racconti. Tuttavia, nessuno dei tre era concepito e risolto come un tutto, essendo ogni racconto un pezzo autonomo e occasionale. Sicché scrivere quei sessantaquattro poteva essere un'avventura affascinante se fossi riuscito a buttarli giù tutti di getto, e con un'unità interna di tono e di stile che li rendesse inseparabili nella memoria del lettore. I primi due - "La traccia del tuo sangue sulla neve" e "L'estate felice della signora Forbes" - li scrissi nel 1976, e subito li pubblicai in supplementi letterari di vari paesi. Non mi presi neppure un giorno di riposo, ma a metà del terzo racconto, che era proprio quello del mio funerale, mi accorsi che stavo stancandomi più che se fosse stato un romanzo. Lo stesso mi accadde col quarto. A tal punto, che non ce la feci a finirli. Adesso so perché: lo sforzo di scrivere un racconto breve è intenso quanto cominciare un romanzo. Perché nel primo paragrafo di un romanzo bisogna definire tutto: struttura, tono, stile, ritmo, lunghezza, e talvolta persino il carattere di qualche personaggio. Il resto è il piacere di scrivere, il più intimo e solitario che si possa immaginare, e se uno non rimane a correggere il libro per il resto della vita è perché lo stesso rigore di ferro di cui c'è bisogno per cominciarlo si impone per finirlo. Il racconto, invece, non ha inizio né fine: viene o non viene. E se non viene, l'esperienza propria e altrui insegnano che quasi sempre è più salutare ricominciarlo per un'altra via, o buttarlo nella spazzatura. Qualcuno che non ricordo l'ha detto bene con una frase consolante: «Un buon scrittore lo si apprezza meglio da quanto straccia che da quanto pubblica». E' vero che non ho stracciato i brogliacci e gli appunti, ma ho fatto di peggio: li ho spinti nell'oblio. Ricordo di avere tenuto il quaderno sulla mia scrivania di Città del Messico, naufrago in una burrasca di fogli, fino al 1978. Un giorno, cercando qualcos'altro, mi accorsi che da tempo l'avevo perso di vista. Non me ne importò. Ma quando mi convinsi che davvero non era sul tavolo ebbi una crisi di panico. Non rimase in casa un angolo che non fosse stato setacciato a fondo. Spostammo i mobili, smontammo la biblioteca per essere sicuri che non fosse caduto dietro i libri, e sottoponemmo domestici e amici a inquisizioni imperdonabili. Non ce n'era traccia. L'unica spiegazione possibile - o plausibile? - è che in qualcuno dei tanti massacri di carte che faccio spesso il quaderno fosse finito nella spazzatura. La mia reazione mi stupì: gli argomenti che avevo dimenticato per quasi quattro anni si erano trasformati in una questione d'onore. Cercando di recuperarli a qualsiasi prezzo, in una fatica ardua quanto scriverli, riuscii a ricostruire gli appunti di trenta di loro. Siccome lo stesso sforzo di ricordarli mi era servito da purga, eliminai spietatamente quelli che mi sembrarono insalvabili, e ne rimasero diciotto. Questa volta mi animava la risoluzione di continuare a scriverli senza interruzioni, ma ben presto mi resi conto che non mi entusiasmavano più. Comunque, al contrario di quanto avevo sempre consigliato ai nuovi scrittori, non li buttai nella spazzatura ma di nuovo li archiviai. Non si può mai sapere. Quando cominciai "Cronaca di una morte annunciata", nel 1979, mi accorsi che nelle pause fra i due libri avevo perso l'abitudine di scrivere e mi era sempre più difficile ricominciare. Per questo, fra l'ottobre del 1980 e il marzo del 1984, mi imposi di scrivere un articolo ogni settimana su giornali di diversi paesi, come disciplina per mantenermi il polso caldo. Allora mi venne da pensare che il mio conflitto con gli appunti del quaderno era sempre un problema di generi letterari, e che in realtà non dovevano essere racconti ma articoli di giornale. Solo che dopo avere pubblicato cinque articoli presi dal quaderno, di nuovo cambiai parere: andavano meglio per il cinema. Fu così che ne vennero fuori cinque film e un serial televisivo. Quel che non avevo mai previsto fu che il lavoro per i giornali e per il cinema mi avrebbe fatto cambiare certe idee sui racconti, al punto che scrivendoli adesso nella loro forma conclusiva ho dovuto stare attento a separare con le pinze le mie idee da quelle inserite dai registi durante la scrittura delle sceneggiature. Inoltre, la collaborazione simultanea con cinque creatori diversi mi ha suggerito un altro metodo per scrivere i racconti: ne cominciavo uno quando avevo tempo libero, lo mettevo da parte quando mi sentivo stanco, o quando spuntava un progetto imprevisto, e poi ne cominciavo un altro. In poco più di un anno, sei dei diciotto argomenti sono finiti nel cestino della cartaccia, e fra questi quello del mio funerale, non essendo mai riuscito a far sì che fosse una gazzarra come quella del sogno. I racconti rimanenti, invece, sono parsi prendere fiato per una lunga vita. Sono i dodici di questo libro. Nel settembre scorso erano pronti per essere stampati dopo altri due anni di lavoro intermittente. E così sarebbe finito il loro incessante andar raminghi fra il tavolo e il cestino della cartaccia, solo che all'ultimo momento mi ha preso un dubbio finale. Visto che le diverse città d'Europa in cui si svolgono i racconti le avevo descritte a memoria e nella distanza, ho voluto controllare la fedeltà dei miei ricordi quasi vent'anni dopo, e ho intrapreso un rapido viaggio di ricognizione a Barcellona, a Ginevra, a Roma e a Parigi. Nessuna di queste città aveva più nulla a che vedere con i miei ricordi. Tutte, come tutta l'Europa attuale, erano rarefatte da un capovolgimento stupefacente: i ricordi reali mi sembravano fantasmi della memoria, mentre i ricordi falsi erano così convincenti che avevano soppiantato la realtà. Sicché mi era impossibile distinguere la linea divisoria fra la delusione e la nostalgia. E' stata la soluzione decisiva. Finalmente avevo trovato quel che più mi mancava per terminare il libro, e che solo il trascorrere degli anni poteva fornirmi: una prospettiva nel tempo. Al mio ritorno da quel viaggio fortunoso ho riscritto ancora una volta tutti i racconti fin dall'inizio in otto mesi febbrili durante i quali non ho avuto bisogno di domandarmi dove finiva la vita e dove cominciava l'immaginazione, perché mi sorreggeva il sospetto che forse non era vero nulla di quanto avevo vissuto vent'anni prima in Europa. La scrittura è allora divenuta così fluida che a tratti mi sentivo scrivere per il puro piacere di narrare, che è forse la condizione umana che più somiglia alla levitazione. Inoltre, lavorando a tutti i racconti al contempo e saltando dall'uno all'altro in piena libertà, ho ottenuto una visione panoramica che mi ha evitato la stanchezza degli inizi successivi, e mi ha aiutato a eliminare ridondanze oziose e contraddizioni mortali. Credo di avere così ottenuto il libro di racconti più vicino a quello che ho sempre voluto scrivere. Ed eccolo qui, pronto per essere portato sul tavolo dopo tanti giri a destra e a manca lottando per sopravvivere alle perversità dell'incertezza. Tutti i racconti, tranne i primi due, sono stati ultimati al contempo, e ognuno reca la data in cui l'ho cominciato. L'ordine in cui compaiono in questa edizione è quello che avevano nel quaderno di appunti. Ho sempre creduto che ogni versione di un racconto sia migliore della precedente. Come sapere allora quale deve essere l'ultima? E' un segreto del mestiere che non obbedisce alle leggi dell'intelligenza ma alla magia degli istinti, così come la cuoca sa quando la minestra è pronta. Comunque, per ogni evenienza, non li rileggerò, come non ho mai riletto nessuno dei miei libri per timore di pentirmi. Chi li leggerà saprà cosa farne. Per fortuna, nel caso di questi dodici racconti raminghi, finire nel cestino della cartaccia deve essere come il sollievo di tornare a casa. Cartagena de Indias, aprile 1992. Buon viaggio, signor presidente. Era seduto sulla panchina di legno sotto le foglie gialle del parco solitario, intento a contemplare i cigni polverosi con entrambe le mani appoggiate sul pomo d'argento del bastone, e a pensare alla morte. Quand'era arrivato a Ginevra per la prima volta il lago era sereno e diafano, e c'erano gabbiani docili che si avvicinavano per mangiare in mano, e donne a nolo che sembravano fantasmi delle sei del pomeriggio, con falpalà di organza e parasoli di seta. Ora, l'unica donna possibile, fin dove gli arrivava la vista, era una venditrice di fiori sul molo deserto. Stentava a credere che il tempo avesse potuto far simili scempi non solo nella sua vita ma anche nel mondo. Era uno dei tanti sconosciuti nella città degli sconosciuti illustri. Indossava il vestito blu a righe bianche, il panciotto di broccato e il cappello rigido dei magistrati in pensione. Aveva un paio di baffi alteri da moschettiere, i capelli azzurrini e abbondanti con onde romantiche, le mani da arpista con la fede da vedovo all'anulare sinistro, e gli occhi allegri. L'unica cosa che tradiva le condizioni della sua salute era la stanchezza della pelle. E anche così, a settantatré anni, era sempre di un'eleganza principesca. Quel mattino, tuttavia, si sentiva esente da ogni vanità. Gli anni della gloria e del potere gli erano rimasti definitivamente alle spalle, e ora c'erano solo quelli della morte. Era tornato a Ginevra dopo due guerre mondiali, in cerca di una risposta decisiva a un dolore che i medici della Martinica non erano riusciti a identificare. Aveva previsto non più di quindici giorni, ma erano già trascorse sei settimane di analisi spossanti e di risultati incerti, e non se ne vedeva ancora la fine. Cercavano il dolore nel fegato, nei reni, nel pancreas, nella prostata, lì dove meno si trovava. Fino a quel giovedì malaugurato, in cui il medico meno noto fra i molti che l'avevano visto non gli aveva fissato un appuntamento alle nove del mattino nel padiglione di neurologia. Lo studio sembrava una cella monacale, e il medico era piccolo e lugubre, e aveva la mano destra ingessata per una frattura al pollice. Quando ebbe spento la luce, apparve sullo schermo la radiografia illuminata di una spina dorsale che lui non riconobbe come sua finché il medico non indicò con una bacchetta, sotto la vita, l'unione di due vertebre. «Il suo dolore sta qui» gli disse. Per lui non era così facile. Il suo dolore era improbabile e sfuggente, e talvolta sembrava star fra le costole destre e talaltra nel basso ventre, e spesso lo sorprendeva con una fitta istantanea all'inguine. Il medico lo ascoltò interrompendosi e con la bacchetta immobile sullo schermo. «Ecco perché ci ha depistati così a lungo» disse. «Ma ora sappiamo che sta qui.» Poi si portò l'indice alla tempia, e precisò: «Sebbene a rigor di logica, signor presidente, ogni dolore risieda qui.» Il suo stile clinico era così drammatico, che la sentenza finale sembrò benevola: il presidente doveva sottoporsi a un'operazione pericolosa e inevitabile. Questi gli domandò qual era il margine di rischio, e il vecchio dottore lo avvolse in una luce di esitanza. «Non potremmo dirlo con sicurezza» gli disse. Fino a poco tempo prima, precisò, i rischi di incidenti fatali erano grandi, e più ancora di molteplici paralisi di vario grado. Ma col progresso della medicina dopo le due guerre quei timori erano cose del passato. «Parta tranquillo» concluse. «Sistemi per bene le sue cose, e ci avverta. Però non dimentichi che sarà meglio occuparsene al più presto.» Non era una buona mattina per smaltire quella brutta notizia, e tanto meno con quel tempaccio. Era uscito molto presto dall'albergo, senza soprabito, perché aveva visto un sole raggiante dalla finestra, e si era avviato col suo passo lento dal Chemin du Beau Soleil, dove si trovava l'ospedale, sino al rifugio per innamorati furtivi del Parc Anglais. Era lì da oltre un'ora, sempre intento a pensare alla morte, quando iniziò l'autunno. Il lago si increspò come un oceano infuriato, e un vento di disordine spaventò i gabbiani e spazzò via le ultime foglie. Il presidente si alzò e, invece di comprarla dalla fioraia, colse una margherita dai vasi pubblici e se la infilò all'occhiello del risvolto. La fioraia lo sorprese. «Quei fiori non sono del buon Dio, signore» gli disse, piccata. «Sono del municipio.» Lui non le diede retta. Si allontanò con lunghi passi leggeri, tenendo il bastone per il mezzo della canna, e a tratti facendolo girare con una scioltezza un po' libertina. Sul ponte del Mont Blanc stavano togliendo di gran fretta le bandiere della Confederazione impazzite sotto il vento, e lo zampillo sottile coronato di spuma si spense prima del tempo. Il presidente non riconobbe il suo solito caffè sul molo, perché avevano tolto il tendaggio verde della veranda e le terrazze fiorite dell'estate si erano ormai chiuse. Nella sala, le lampade erano accese in pieno giorno, e il quartetto d'archi suonava un Mozart premonitore. Il presidente prese dal banco un quotidiano della pila riservata ai clienti, appese il cappello e il bastone all'attaccapanni, si mise gli occhiali con la montatura d'oro per leggere al tavolino più discosto, e solo allora fu consapevole che era arrivato l'autunno. Cominciò a leggere dalla pagina di politica estera, dove assai di rado trovava qualche notizia delle Americhe, e continuò a leggere dalla fine verso l'inizio finché la cameriera non gli ebbe portato la sua bottiglia quotidiana di acqua di Evian. Da più di trent'anni aveva rinunciato all'abitudine del caffè per ordine dei suoi medici. Ma aveva detto: «Se un giorno avessi la certezza di dover morire, riprenderei a berlo». Forse il momento era arrivato. «Mi porti pure un caffè» ordinò in un francese perfetto. E precisò senza accorgersi del doppio senso: «All'italiana, di quelli che fanno resuscitare i morti». Lo bevve senza zucchero, a sorsi lenti, e poi rovesciò la tazza sul piattino affinché i fondi del caffè, dopo tanti anni, avessero il tempo di tracciare il suo destino. Il sapore recuperato lo redense per un istante dai suoi brutti pensieri. Un momento dopo, come parte dello stesso sortilegio, sentì che qualcuno lo guardava. Allora girò la pagina con un gesto casuale, guardò da sopra gli occhiali, e vide l'uomo pallido e non rasato, con un berretto sportivo e una giacca di pelle scamosciata, che scostò subito lo sguardo per non incontrare il suo. Il viso gli era familiare. Si erano incrociati più volte nell'atrio dell'ospedale, l'aveva rivisto un giorno su una vespa lungo la Promenade du Lac mentre lui contemplava i cigni, ma non si era mai sentito riconosciuto. Non scartò, tuttavia, che fosse un'altra delle tante fantasie di persecuzione dell'esilio. Finì il quotidiano senza fretta, fluttuando fra i cieli sontuosi di Brahms, finché il dolore non fu più forte dell'analgesico della musica. Allora guardò l'orologio d'oro che portava appeso a una catenella nel taschino del panciotto, e prese le due compresse calmanti di mezzogiorno con l'ultimo sorso di acqua di Evian. Prima di togliersi gli occhiali decifrò il suo destino nei fondi del caffè, ed ebbe un brivido gelido: eccola lì l'incertezza. Infine pagò il conto con una mancia stitica, prese il bastone e il cappello dall'attaccapanni, e uscì in strada senza guardare l'uomo che lo guardava. Si allontanò con la sua andatura festosa, costeggiando i vasi di fiori stracciati dal vento, e si credette libero dalla malia. Ma d'improvviso sentì i passi dietro i suoi, si fermò mentre girava all'angolo, e si volse. L'uomo che lo seguiva dovette fermarsi di botto per non scontrarsi con lui, e lo guardo stupito, a meno di due palmi dai suoi occhi. «Signor presidente» mormorò. «Dica a quelli che la pagano di non farsi illusioni» disse il presidente, senza perdere il sorriso né il fascino della voce. «La mia salute è ottima.» «Nessuno lo sa meglio di me» disse l'uomo, schiacciato dal peso della dignità che gli cadde addosso. «Lavoro all'ospedale.» La dizione e la cadenza, e anche la sua timidezza, erano quelle di un caraibico genuino. «Non mi dirà che è medico» gli disse il presidente. «Ma si figuri, signore» disse l'uomo. «Sono conduttore di ambulanza.» «Mi dispiace» disse il presidente, convinto del suo errore. «E' un lavoro duro.» «Non quanto il suo, signore.» Lui lo guardò senza riserve, si appoggiò al bastone con entrambe le mani, e gli domandò con un interesse reale: «Di dov'è lei?» «Dei Caraibi.» «Di questo me n'ero accorto» disse il presidente. «Ma di quale paese?» «Proprio del suo, signore» disse l'uomo, e gli porse la mano. «Il mio nome è Homero Rey.» Il presidente lo interruppe sorpreso, senza lasciargli la mano. «Cazzo» gli disse. «Che bel nome!» Homero si rilassò. «E ce n'è ancora» disse: «Homero Rey de la Casa». Una coltellata invernale li colse indifesi in mezzo alla strada. Il presidente rabbrividì fin nelle ossa e comprese che senza soprabito non avrebbe potuto fare i due isolati che gli mancavano fino alla trattoria per poveri dove in genere pranzava. «Ha già pranzato?» domandò a Homero. «Non pranzo mai» disse Homero. «Faccio un unico pasto la sera a casa mia.» «Faccia un'eccezione per oggi» gli disse lui con tutto il suo fascino a fior di pelle. «La invito a pranzo.» Lo prese per un braccio e lo guidò fino al ristorante di fronte, col nome dorato sul tendaggio di tela plastificata: Le Boeuf Couronné. L'interno era raccolto e caldo, e non sembrava che ci fossero posti liberi. Homero Rey, stupito che nessuno riconoscesse il presidente, proseguì sino in fondo alla sala per chiedere aiuto. «E' un presidente in carica?» gli domandò il proprietario. «No» disse Homero. «Deposto.» Il proprietario se ne uscì in un sorriso di consenso. «Per loro» disse «ho sempre un tavolo speciale.» Li guidò a un tavolo appartato in fondo alla sala dove era possibile chiacchierare con agio. Il presidente lo ringraziò. «Non tutti riconoscono come lei la dignità dell'esilio» disse. La specialità della casa erano le costate di manzo alla brace. Il presidente e il suo invitato si guardarono intorno, e videro agli altri tavoli i grossi pezzi arrostiti con un bordo di grasso tenero. «E' una carne magnifica» mormorò il presidente. «Ma me l'hanno proibita.» Fissò su Homero uno sguardo discolo, e cambiò tono. «In realtà, mi hanno proibito tutto.» «Le hanno proibito pure il caffè» disse Homero, «e tuttavia lo prende.» «Se n'è accorto?» disse il presidente. «Ma oggi è stata solo un'eccezione in una giornata eccezionale.» L'eccezione di quel giorno non fu solo il caffè. Ordinò anche una costata di manzo alla brace e un'insalata di verdura fresca senz'altro condimento che un goccio di olio d'oliva. Il suo invitato ordinò le stesse cose, più mezza caraffa di vino rosso. Mentre aspettavano la carne, Homero tirò fuori dalla tasca della giacca un portafogli senza denaro e con molti pezzi di carta, e mostrò al presidente una foto sbiadita. Lui si riconobbe in maniche di camicia, con parecchi chili di meno e i capelli e i baffi di un color nero intenso, in mezzo a una ressa di giovani che si alzavano sulla punta dei piedi per comparire meglio nella foto. Con un solo sguardo riconobbe il luogo, riconobbe gli emblemi di una campagna elettorale esecrabile, riconobbe il giorno ingrato. «Che orrore!» mormorò. «L'ho sempre detto che si invecchia più in fretta nelle fotografie che nella vita reale.» E restituì la foto con un gesto da ultimo atto. «Ricordo benissimo» disse. «E' stato migliaia di anni fa nell'arena per i combattimenti dei galli a San Cristóbal de las Casas.» «E' il mio paese» disse Homero, e indicò se stesso nel gruppo. «Questo sono io.» Il presidente lo riconobbe. «Era un bambino!» «Quasi» disse Homero. «Sono stato con lei per tutta la campagna del sud come capo delle brigate universitarie.» Il presidente prevenne il rimprovero. «Io, è ovvio, neppure mi accorgevo di lei» disse. «Al contrario, era molto gentile con noi» disse Homero. «Ma eravamo così tanti che non è possibile che si ricordi.» «E poi?» «Chi può saperlo meglio di lei?» disse Homero. «Dopo l'intervento dei militari è un miracolo che tutt'e due ci ritroviamo qui, pronti a mangiarci mezzo bue. Non tutti hanno avuto la stessa fortuna.» In quel momento portarono i loro piatti. Il presidente si annodò il tovagliolo intorno al collo, come un bavagliolo, e non fu insensibile al silenzioso stupore dell'invitato. «Se non facessi così ci rimetterei una cravatta a ogni pasto» disse. Prima di cominciare controllò la morbidezza della carne, l'approvò con un gesto compiaciuto, e riprese il discorso. «Quel che non mi spiego» disse «è perché non mi si è avvicinato prima invece di starmi dietro come un segugio.» Allora Homero gli raccontò che l'aveva riconosciuto fin da quando l'aveva visto entrare nell'ospedale da una porta riservata ai casi molto speciali. Era piena estate, e lui indossava il completo di lino bianco delle Antille, con scarpe intonate bianche e nere, la margherita all'occhiello, e la bella chioma scompigliata dal vento. Homero aveva appurato che era solo a Ginevra, senza l'aiuto di nessuno, perché conosceva a memoria la città dove aveva finito i suoi studi di legge. La direzione dell'ospedale, dietro sua richiesta, aveva preso le precauzioni interne per garantire l'incognito assoluto. Quella stessa sera, Homero si era messo d'accordo con sua moglie per prendere contatto con lui. Tuttavia, l'aveva seguito per cinque settimane cercando un'occasione propizia, e forse non sarebbe stato capace di salutarlo se lui non l'avesse affrontato. «Mi rallegro che l'abbia fatto» disse il presidente «anche se, a dire il vero, non mi dispiace affatto stare da solo.» «Non è giusto.» «Perché?» domandò il presidente con sincerità. «La maggior vittoria della mia vita è stata far sì che mi dimenticassero.» «Noi la ricordiamo più di quanto lei possa immaginare» disse Homero senza nascondere la sua emozione. «E' una gioia vederla così, sano e giovane.» «Tuttavia» disse lui senza drammatizzare, «tutto indica che morirò molto presto.» «Le sue probabilità di uscirne bene sono assai alte» disse Homero. Il presidente ebbe un sobbalzo di stupore, ma non perdette il suo umorismo. «Ah, cazzo!» esclamò. «Nella bella Svizzera è forse stato abolito il segreto medico?» «In nessun ospedale del mondo ci sono segreti per un conduttore di ambulanza» disse Homero. «Ma quel che io so l'ho saputo solo due ore fa e dalla bocca dell'unica persona che doveva saperlo.» «Comunque, lei non morirebbe invano» disse Homero. «Qualcuno la collocherà nel posto che le spetta come un grande esempio di dignità.» Il presidente finse uno stupore comico. «Grazie per avermi informato» disse. Mangiava così come faceva ogni cosa: piano e con una grande correttezza. Intanto guardava Homero dritto negli occhi, sicché questi aveva l'impressione di vedere quel che lui pensava. Al termine di una lunga chiacchierata a base di evocazioni nostalgiche, fece un sorriso maligno. «Avevo deciso di non preoccuparmi del mio cadavere» disse, «ma ora vedo che devo prendere certe precauzioni da romanzo poliziesco affinché nessuno lo trovi.» «Sarà inutile» scherzò Homero a sua volta. «All'ospedale non ci sono segreti che durino più di un'ora.» Quando ebbero finito il caffè, il presidente lesse i fondi della sua tazza, e di nuovo rabbrividì: il messaggio era lo stesso. Tuttavia, la sua espressione non si alterò. Pagò in contanti, ma prima verificò il totale più volte, controllò più volte il denaro con attenzione eccessiva, e lasciò una mancia che riscosse solo un grugnito da parte del cameriere. «E' stato un piacere» concluse, congedandosi da Homero. «Non ho una data per l'operazione, e non ho neppure deciso se mi ci sottoporrò o meno. Ma se tutto va bene ci rivedremo.» «E perché non prima?» disse Homero. «Lázara, mia moglie, è un'ottima cuoca. Nessuno prepara il riso con i gamberi meglio di lei, e ci farebbe piacere averla da noi una di queste sere.» «Mi hanno proibito i frutti di mare, ma li mangerò con molto piacere» disse lui. «Mi dica quando.» «Il giovedì è la mia giornata libera» disse Homero. «Perfetto» disse il presidente. «Giovedì sera alle sette sarò a casa sua. Sarà un piacere.» «Io passerò a prenderla» disse Homero. «Hôtellerie Dames, 14 rue de l'Industrie. Dietro la stazione. E' giusto?» «Giusto» disse il presidente, e si alzò più fascinoso che mai. «Di certo, conoscerà persino il mio numero di scarpe.» «Proprio così, signore» disse Homero, divertito: «il quarantuno». Quel che Homero Rey non raccontò al presidente, ma che continuò a raccontare per anni a chiunque volesse ascoltarlo, fu che la sua intenzione iniziale non era stata così innocente. Come altri conduttori di ambulanza, era in contatto con imprese di pompe funebri e compagnie di assicurazioni per vendere servizi all'interno dello stesso ospedale, soprattutto a pazienti stranieri di scarsi mezzi. Erano guadagni minimi, e inoltre bisognava spartirli con altri impiegati che si passavano di mano in mano le informazioni segrete sugli ammalati gravi. Ma era un valido aiuto per un esiliato senza avvenire che sopravviveva assai malamente con la moglie e i due figli grazie a uno stipendio ridicolo. Lázara Davis, sua moglie, fu più realista. Era una mulatta sottile di San Juan de Puerto Rico, minuta e robusta, color del caramello a riposo e con certi occhi da cagna selvaggia che si intonavano benissimo al suo modo di essere. Si erano conosciuti nel reparto di assistenza pubblica dell'ospedale, dove lei lavorava come aiutante tuttofare dopo che un finanziere del suo paese, che se l'era portata appresso come bambinaia, l'aveva lasciata alla deriva a Ginevra. Si erano sposati secondo il rito cattolico anche se lei era una principessa yoruba, e abitavano in un salottino e due camere da letto all'ottavo piano senza ascensore di un edificio per emigranti africani. Avevano una bambina di nove anni, Bárbara, e un bambino di sette, Lázaro, con qualche piccolo indizio di ritardo mentale. Lázara Davis era intelligente e con un brutto carattere, per quanto fosse di cuore tenero. Considerava se stessa un Toro puro; e aveva una fiducia cieca nei suoi pronostici astrali. Tuttavia, non era mai riuscita a realizzare il sogno di guadagnarsi da vivere come astrologa per milionari. In cambio, portava in casa contributi occasionali, e talvolta importanti, preparando cene per signore ricche che si pavoneggiavano con gli invitati facendo credere che avevano cucinato loro gli eccitanti piatti delle Antille. Homero, da parte sua, era timido quant'altri mai, e non sapeva valorizzare il poco che faceva, ma Lázara non concepiva la vita senza di lui per l'innocenza del suo cuore e il calibro della sua arma. Se l'erano passata bene, ma gli anni si susseguivano sempre più duri e i bambini crescevano. Nel periodo in cui era arrivato il presidente avevano cominciato a intaccare i loro risparmi di cinque anni. Sicché quando Homero Rey l'aveva scoperto fra gli ammalati in incognito dell'ospedale, si erano fatti grandi illusioni. Non sapevano cosa esattamente gli avrebbero proposto, né con quale diritto. Sulle prime avevano pensato di vendergli il funerale completo, compresi l'imbalsamazione e il rimpatrio. Ma a poco a poco si erano resi conto che la morte non sembrava imminente come all'inizio. Il giorno del pranzo erano ormai frastornati dai dubbi. Il fatto è che Homero non era stato capo delle brigate universitarie, né alcunché del genere, e l'unica volta che aveva preso parte alla campagna elettorale era stato quando gli avevano scattato la foto che erano riusciti a scovare per miracolo in mezzo ad altre carte nell'armadio. Ma il suo fervore era vero. Era pure vero che aveva dovuto fuggire dal paese per la sua resistenza in strada contro l'intervento dei militari, anche se l'unico motivo per continuare a vivere a Ginevra dopo tanti anni era la sua povertà di spirito. Sicché una bugia in più o in meno non doveva essere un ostacolo per guadagnarsi i favori del presidente. La prima sorpresa di entrambi fu che l'esiliato illustre vivesse in un albergo di quarta categoria nel quartiere triste della Grotte, fra emigrati asiatici e farfalle della notte, e che mangiasse solo in trattorie per poveri, mentre Ginevra era piena di residenze dignitose per politici in disgrazia. Homero l'aveva visto ripetere un giorno dopo l'altro le azioni di quel giorno. L'aveva accompagnato con lo sguardo, e talvolta a una distanza meno che prudente, nelle sue passeggiate notturne fra i muri lugubri e i viluppi di campanule gialle della città vecchia. L'aveva visto assorto per ore davanti alla statua di Calvino. Aveva salito dietro di lui passo per passo la scalinata di pietra, soffocato dal profumo ardente dei gelsomini, per contemplare i lenti tramonti dell'estate dalla cima del Bourg-le-Four. Una sera l'aveva visto sotto la prima pioviggine senza soprabito né ombrello, che faceva la coda con gli studenti per un concerto di Rubinstein. «Non so come non gli sia venuta una polmonite» aveva poi detto alla moglie. Il sabato prima, quando il tempo aveva cominciato a cambiare, l'aveva visto comprarsi un soprabito autunnale con un collo di finto visone, ma non nei negozi luminosi di rue du Rhône, dove compravano gli emiri in fuga, bensì al Mercato delle Pulci. «Allora non c'è nulla da fare!» aveva esclamato Lázara quando Homero gliel'aveva raccontato. «E' un taccagno di merda, capace di farsi seppellire dalla beneficenza nella fossa comune. Non gli caveremo mai nulla.» «Forse è davvero povero» disse Homero, «dopo tanti anni senza lavoro.» «Ahi, caro mio, una cosa è esser Pesci con ascendente Pesci e un'altra è essere un furbone» disse Lázara. «Tutti lo sanno che se l'è svignata con l'oro del governo e che è l'esiliato più ricco della Martinica.» Homero, che era più vecchio di dieci anni, era cresciuto impressionato dalla notizia che il presidente aveva studiato a Ginevra, lavorando come operaio edile. Invece Lázara era stata allevata fra gli scandali della stampa nemica, magnificati in una casa di nemici, dov'era stata bambinaia fin da piccola. Sicché la sera in cui Homero arrivò oppresso dalla gioia perché aveva pranzato col presidente, a lei non importò il fatto che l'avesse invitato in un ristorante costoso. Le dispiacque che Homero non gli avesse chiesto nulla di tutto quanto avevano sognato, dalle borse di studio per i bambini a un posto migliore all'ospedale. Le sembrò una conferma dei propri sospetti la decisione che buttassero il suo cadavere agli avvoltoi invece di spendere i suoi franchi in un funerale dignitoso e in un rimpatrio glorioso. Ma quel che fece traboccare il vaso fu la notizia che Homero aveva serbato per la fine, quando venne a sapere che aveva invitato il presidente a mangiare il riso con i gamberi il giovedì sera. «Proprio questo ci mancava» gridò Lázara, «che ci muoia qui, avvelenato da gamberi di merda, e che dobbiamo seppellirlo con i risparmi dei bambini.» Quel che infine determinò il suo comportamento fu il peso della sua lealtà coniugale. Dovette chiedere in prestito a una vicina tre coperti completi di alpaca e un'insalatiera di cristallo, a un'altra una caffettiera elettrica, a un'altra ancora una tovaglia ricamata e un servizio da caffè cinese. Cambiò le tende vecchie con quelle nuove, che usavano solo nei giorni di festa, e tolse le fodere ai mobili. Passò una giornata intera fregando i pavimenti, togliendo la polvere, spostando le cose, finché non ottenne il contrario di quanto sarebbe stato più opportuno, che era commuovere il presidente col decoro della povertà. Il giovedì sera, dopo essersi ripreso dallo sfiatamento degli otto piani, il presidente apparve sulla soglia col nuovo soprabito vecchio e la bombetta di altri tempi, e con una sola rosa per Lázara. Lei fu impressionata dalla sua bellezza virile e dai suoi modi da principe, ma al di là di tutto questo lo vide come si aspettava di vederlo: falso e rapace. Le sembrò impertinente, perché lei aveva cucinato con le finestre aperte per evitare che il vapore dei gamberi impregnasse la casa, e la prima cosa che lui fece entrando fu inspirare a fondo, come in un'estasi improvvisa, ed esclamare a occhi chiusi e con le braccia spalancate: «Ah, l'odore del nostro mare!». Le sembrò più taccagno che mai perché le portava una sola rosa, sicuramente rubata nei giardini pubblici. Le sembrò insolente, per lo sdegno con cui guardò i ritagli di giornali sulle sue glorie presidenziali, e i gagliardetti e le bandierine della campagna, che Homero aveva affisso con tante illusioni alle pareti del salotto. Le sembro duro di cuore, perché neppure salutò Bárbara e Lázaro, che avevano per lui un regalo fatto da loro, e nel corso della cena accennò a due cose che non poteva sopportare: i cani e i bambini. Lo odiò. Tuttavia, il suo senso caraibico dell'ospitalità si impose sui pregiudizi. Si era messa il camicione africano delle sue serate di festa e le collane e i braccialetti stregoneschi, e durante la cena non fece un solo gesto né disse una sola parola più del necessario. Fu più che impeccabile: perfetta. Il fatto era che il riso con i gamberi non rientrava fra le sue specialità culinarie, ma lo preparò con tutta la sua buona volontà, e le riuscì benissimo. Il presidente si servì due volte senza risparmiare lodi, e andò in sollucchero per le fette di banana matura fritta e per l'insalata di avocado, anche se non spartì le nostalgie. Lázara si rassegnò ad ascoltare fino al dolce, quando Homero si infilò senza che venisse a proposito nel vicolo cieco dell'esistenza di Dio. «Io ci credo che esiste» disse il presidente, «ma non ha nulla a che vedere con gli esseri umani. E' preso da cose molto più importanti.» «Io credo solo negli astri» disse Lázara, e scrutò la reazione del presidente. «Lei in che giorno è nato?» «Undici marzo.» «Così doveva essere» disse Lázara con un sussulto trionfale, e domandò con garbo: «Non saranno troppi due Pesci alla stessa tavola?». Gli uomini continuavano a parlare di Dio mentre lei se ne andò in cucina a preparare il caffè. Aveva ritirato gli avanzi del pasto e desiderava con tutta la sua anima che la serata finisse bene. Di ritorno in salotto col caffè colse una frase isolata del presidente che la lasciò attonita. «Non ne dubiti, mio caro amico: il peggio che è potuto accadere al nostro povero paese è che io ne sia stato il presidente.» Homero vide Lázara sulla soglia con le tazze cinesi e la caffettiera imprestata, e credette che stesse per svenire. Anche il presidente la notò. «Non mi guardi così, signora» le disse con garbo. «Sto parlando col cuore.» E poi, volgendosi verso Homero, concluse: «Meno male che sto pagando cara la mia idiozia.» Lázara servì il caffè, spense la lampada zenitale sulla tavola la cui luce inclemente disturbava la conversazione, e il salotto rimase in una penombra intima. Per la prima volta si interessò all'invitato, il cui umorismo non riusciva a occultarne la tristezza. La curiosità di Lázara crebbe quando lui finì il caffè e rovesciò la tazza sul piattino affinché i fondi sedimentassero. Durante il dopocena il presidente raccontò loro che aveva scelto l'isola della Martinica per il suo esilio, a causa dell'amicizia col poeta Aimé Césaire, che in quegli anni aveva appena pubblicato il suo "Cahier d'un retour au pays natal", e gli aveva offerto aiuto per iniziare una nuova vita. Con quanto rimaneva dell'eredità della moglie avevano comprato una casa di legno pregiato sulle colline di Fort de France, con grate alle finestre e una terrazza sul mare piena di fiori primitivi, dove era un piacere dormire con lo schiamazzo dei grilli e la brezza di melassa e rum di canna dei frantoi. Era rimasto lì con la moglie, di quattordici anni più anziana di lui e malata dopo il suo unico parto, trincerato contro il destino nella rilettura viziosa dei suoi classici latini, in latino, e con la convinzione che quello era l'ultimo atto della sua vita. Per anni aveva dovuto resistere alle tentazioni di ogni sorta di avventure che gli proponevano i suoi partigiani sconfitti. «Ma non ho mai più aperto una lettera» disse. «Mai, dopo aver preso atto che perfino le più urgenti erano meno urgenti dopo una settimana, e che dopo due mesi neppure chi le aveva scritte se ne ricordava.» Guardò Lázara nella penombra quando si accese una sigaretta, e gliela tolse con un gesto rapido delle dita. Aspirò profondamente, e trattenne il fumo in gola. Lázara, stupita, prese il pacchetto e i fiammiferi per accendersene un'altra, ma lui le restituì la sigaretta accesa. «Lei fuma con tale piacere che non ho potuto resistere alla tentazione» le disse. Ma dovette soffiare fuori il fumo perché ebbe un inizio di tosse. «Mi sono tolto il vizio da molti anni, ma lui non si è tolto completamente da me» disse. «Certe volte è riuscito a vincermi. Come adesso.» La tosse lo scrollò ancora due volte. Tornò il dolore. Il presidente guardò l'ora all'orologio da taschino, e prese le due compresse della sera. Poi scrutò i fondi della tazza: non era cambiato nulla, ma questa volta non ebbe brividi. «Alcuni miei partigiani sono stati presidenti dopo di me» disse. «Sáyago» disse Homero. «Sáyago e altri» disse lui. «Tutti come me: lì a usurpare un onore che non meritavamo con un mestiere che non sapevamo fare. Alcuni inseguono solo il potere, ma la maggioranza cerca ancora meno: un lavoro.» Lázara si contrasse. «Lo sa quel che dicono di lei?» gli domandò. Homero, allarmato, intervenne: «Sono bugie.» «Sono bugie e non lo sono» disse il presidente con una calma celestiale. «Trattandosi di un presidente, le peggiori ignominie possono essere tutt'e due le cose al contempo: verità e bugia.» Aveva vissuto alla Martinica tutti i giorni dell'esilio, senza altri contatti con l'esterno che le poche notizie del giornale ufficiale, sostentandosi con lezioni di spagnolo e di latino in un liceo locale e con le traduzioni che talvolta gli affidava Aimé Césaire. Il caldo era insopportabile in agosto, e lui se ne rimaneva nell'amaca fino a mezzogiorno, leggendo ninnato dal ventilatore a pale della camera da letto. La moglie si occupava degli uccelli che allevava in libertà, anche nelle ore di maggior caldo, proteggendosi dal sole con un cappello di paglia dalle ampie tese, abbellito con fragole artificiali e fiori di organza. Ma quando il caldo calava era bello prendere il fresco sulla terrazza, lui con lo sguardo fisso sul mare finché non sprofondava nelle tenebre, e lei sulla sua sedia a dondolo di vimini, col cappello rotto e gli anelli di bigiotteria su tutte le dita, vedendo passare le navi del mondo. «Quella va a Puerto Santo» diceva lei. «Quella quasi non può avanzare per via del carico di banane di Puerto Santo» diceva. Perché le sembrava impossibile che passasse una nave che non fosse del suo paese. Lui faceva il sordo, anche se alla fine lei era riuscita a dimenticare meglio di lui, perché era rimasta senza memoria. Se ne stavano così finché non si spegnevano i crepuscoli fragorosi, e dovevano rifugiarsi in casa sconfitti dalle zanzare. In uno di quei tanti agosti, mentre leggeva il giornale sulla terrazza, il presidente ebbe un sobbalzo di meraviglia. «Ah, cazzo!» disse. «Sono morto a Estoril!» La moglie, levitando nel sopore, si spaventò alla notizia. Erano sei righe sulla quinta pagina del giornale che veniva stampato proprio lì all'angolo, dove si pubblicavano le sue traduzioni occasionali, e il cui direttore passava a trovarlo di tanto in tanto. E adesso diceva che era morto a Estoril de Lisboa, centro balneare e roccaforte della decadenza europea, dove non era mai stato, e forse l'unico posto del mondo dove non avrebbe voluto morire. La moglie era morta davvero un anno dopo, tormentata dall'ultimo ricordo che le rimaneva in quell'istante: il ricordo dell'unico figlio, che aveva preso parte alla cacciata del padre, ed era poi stato fucilato dai suoi stessi complici. Il presidente sospirò. «Così siamo, e nulla potrà redimerci» disse. «Un continente concepito dalla feccia del mondo intero senza un istante d'amore: figli di rapimenti, di stupri, di patti infami, di inganni, di nemici con nemici.» Affrontò gli occhi africani di Lázara, che lo squadravano senza pietà, e cercò di ammansirla con la sua loquela da vecchio maestro. «La parola meticciato significa mescolare le lacrime col sangue che scorre. Cosa ci si può aspettare da una simile mistura?» Lázara lo inchiodò lì dov'era con un silenzio di morte. Ma riuscì a riprendersi, poco prima della mezzanotte, e lo congedò con un bacio formale. Il presidente rifiutò che Homero lo accompagnasse all'albergo, ma non riuscì a impedire che lo aiutasse a cercare un taxi. Di ritorno a casa trovò Lázara alterata dall'ira. «Quello lì è il presidente meglio trombato del mondo» disse lei. «Un tremendo figlio di puttana.» Malgrado gli sforzi che fece Homero per tranquillizzarla, passarono una terribile notte in bianco. Lázara ammetteva che era uno degli uomini più belli che avesse visto, con un potere di seduzione devastante e una virilità da stallone. «Così com'è, vecchio e finito, a letto deve essere ancora un leone» disse. Ma credeva che quei doni di Dio li avesse sprecati al servizio della simulazione. Non poteva sopportare quelle millanterie di essere stato il peggior presidente del paese. Né le sue arie da asceta, essendo convinta che era padrone della metà degli zuccherifici della Martinica. Né l'ipocrisia del suo sdegno per il potere, essendo evidente che avrebbe dato tutto pur di tornare per un solo minuto alla presidenza e far mordere la polvere ai suoi nemici. «E tutto questo» concluse «solo per farci star lì appesi alle sue labbra.» «E cosa ci guadagnerebbe?» «Nulla» disse lei. «Il fatto è che la civetteria è un vizio che non si sazia mai.» Era tanta la sua ira, che Homero non riuscì a sopportarla nel letto e andò a finire la notte avvolto in una coperta sul divano del salotto. Anche Lázara si alzò all'alba, nuda da capo a piedi, come aveva l'abitudine di dormire e di stare in casa, e parlando con se stessa in un monologo a una sola corda. A un certo punto cancellò dalla memoria dell'umanità ogni traccia della cena malaugurata. Restituì nel primo mattino le cose prese in prestito, cambiò le tende nuove con quelle vecchie e rimise i mobili al loro posto, finché la casa non ridivenne povera e dignitosa come lo era stata fino alla sera prima. Infine strappò via i ritagli di giornale, i ritratti, le bandierine e i gagliardetti della campagna abominevole, e buttò tutto nella pattumiera con un grido finale. «A fa'n culo!» Una settimana dopo la cena, Homero trovò il presidente che lo aspettava all'uscita dall'ospedale, con la supplica di accompagnarlo al suo albergo. Salirono i tre piani ripidi fino alla mansarda con un solo abbaino che dava su un cielo di cenere, e attraversata da una corda con biancheria stesa ad asciugare. C'era anche un letto matrimoniale che occupava metà dello spazio, una seggiola semplice, un lavamano e un bidet portatile, e un armadio da poveri con lo specchio rannuvolato. Il presidente notò lo stupore di Homero. «E' la stessa stamberga dove ho trascorso i miei anni da studente» gli disse, come per scusarsi. «L'ho riservata da Fort de France.» Tolse da una borsa di velluto e sciorinò sul letto l'ultimo residuo dei suoi averi: diversi braccialetti d'oro con varie lavorazioni di pietre preziose, una collana di perle a tre giri e altre due d'oro e pietre preziose; tre catene d'oro con medaglie di santi e un paio di orecchini d'oro con smeraldi, un altro con diamanti e un altro ancora con rubini; due reliquiari e un medaglione per conservare capelli, undici anelli con ogni sorta di montature preziose e un diadema di brillanti che poteva essere stato di una regina. Poi tolse da un astuccio a parte tre paia di gemelli d'argento e due d'oro con i relativi fermacravatta, e un orologio da taschino placcato d'oro bianco. Infine tolse da una scatola da scarpe le sue sei decorazioni: due d'oro, una d'argento, e il resto, pura latta. «E' tutto quel che mi rimane nella vita» disse. Non aveva altra scelta che vendere tutto per saldare le spese ospedaliere, e desiderava che Homero gli facesse quel favore con la maggiore riservatezza. Tuttavia Homero non si sentì capace di accontentarlo finché non avesse avuto le regolari fatture. Il presidente gli spiegò che erano i gioielli di sua moglie ereditati da una nonna coloniale che a sua volta aveva ereditato un pacchetto di azioni in miniere d'oro in Colombia. L'orologio, i gemelli e i fermacravatta erano suoi. Le decorazioni, ovviamente, non erano mai state di nessun altro. «Non credo sia possibile avere fatture di cose del genere» disse. Homero fu inflessibile. «In tal caso» rifletté il presidente, «non avrò altra scelta che espormi di persona.» Si mise a raccogliere i gioielli con una calma calcolata. «La prego di perdonarmi, mio caro Homero, ma non c'è peggior povertà di quella di un presidente povero» gli disse. «Perfino sopravvivere sembra indecoroso.» In quell'istante, Homero lo vide per la prima volta col cuore, e gli si arrese. Quella sera, Lázara tornò tardi a casa. Fin dalla soglia vide i gioielli scintillanti sotto la luce mercuriale della sala da pranzo, e fu come se avesse visto uno scorpione nel suo letto. «Non essere stupido, Homero» disse, spaventata. «Perché quei preziosi sono qui?» La spiegazione di Homero la inquietò ancora di più. Si sedette a esaminare i gioielli, a uno a uno, con una meticolosità da orefice. A un certo punto sospirò: «Devono valere una fortuna». Infine rimase a guardare Homero senza trovare via di scampo al suo offuscamento. «Cazzo» disse. «Come si fa a sapere se tutto quanto dice quell'uomo è vero?» «E perché no?» disse Homero. «Ho appena visto che si lava da solo la biancheria e che se l'asciuga in una stanza come noi, appesa a un filo di ferro.» «Per taccagneria» disse Lázara. «O per povertà» disse Homero. Lázara riprese a esaminare i gioielli, ma ora con meno attenzione, perché pure lei era esausta. Sicché il mattino dopo si vestì con quanto di meglio possedeva, si agghindò con i gioielli che le sembrarono più costosi, si mise tutti gli anelli che fu possibile a ogni dito, persino al pollice, e tutti i braccialetti che le fu possibile infilarsi in ogni braccio, e andò a venderli. «Vediamo chi ha il coraggio di chiedere fatture a Lázara Davis» disse uscendo, mentre si pavoneggiava e rideva. Scelse la gioielleria giusta, con più pretese che prestigio, dove sapeva che si vendeva e si comprava senza troppe domande, ed entrò terrorizzata ma con incedere sicuro. Un commesso vestito da cerimonia, asciutto e pallido, le fece un inchino teatrale baciandole la mano, e si mise ai suoi ordini. L'interno era più chiaro del giorno, per via degli specchi e delle luci intense, e il negozio intero sembrava di diamante. Lázara, senza guardare più del necessario il commesso per timore che si accorgesse della sua farsa, proseguì sino in fondo. Il commesso la invitò a sedersi davanti a uno dei tre scrittoi Luigi Quindicesimo che fungevano da banchi individuali, e vi spiegò sopra un fazzoletto immacolato. Poi si sedette di fronte a Lázara, e attese. «In cosa posso esserle utile?» Lei si sfilò gli anelli, i braccialetti, le collane, gli orecchini, tutto quel che portava addosso, e li ripose sopra lo scrittoio in un ordine da scacchiera. L'unica cosa che voleva, disse, era conoscere il loro valore autentico. Il gioielliere si infilò il monocolo all'occhio sinistro, e cominciò a esaminare i gioielli in un silenzio clinico. Dopo un lungo momento, senza interrompere l'esame, domandò: «Di dov'è lei?» Lázara non aveva previsto quella domanda. «Ah, signore» sospirò. «Di molto lontano.» «Me lo immagino» disse lui. Tacque di nuovo, mentre Lázara lo scrutava senza misericordia, con i suoi terribili occhi d'oro. Il gioielliere consacrò un'attenzione speciale al diadema di diamanti, e lo scostò dagli altri gioielli. Lázara sospirò. «Lei è un Vergine perfetto» disse. Il gioielliere non interruppe l'esame. «Come lo sa?» «Dal suo modo di essere» disse Lázara. Lui non fece alcun commento finché non ebbe finito, e si rivolse a lei con la stessa parsimonia che all'inizio. «Da dove viene il tutto?» «Eredità di una nonna» disse Lázara con voce tesa. «E' morta l'anno scorso a Paramáribo a novantasette anni.» Il gioielliere la guardò allora negli occhi. «Mi dispiace molto» le disse. «Ma l'unico valore di queste cose è quanto pesa l'oro.» Prese il diadema con la punta delle dita e lo fece brillare sotto la luce accecante. «Tranne questo» disse. «E' molto antico, forse egiziano, e sarebbe inestimabile se non fosse per le cattive condizioni dei brillanti. Comunque ha un certo valore storico.» Invece, le pietre delle altre gioie, le ametiste, gli smeraldi, i rubini, gli opali, tutte, senza eccezioni, erano false. «Sicuramente gli originali erano buoni» disse il gioielliere, mentre raccoglieva i preziosi per restituirli. «Ma a forza di passare da una generazione all'altra le pietre autentiche sono rimaste per strada, sostituite da fondi di bottiglia.» Lázara ebbe una nausea verde, respirò profondamente e dominò il panico. Il commesso la consolò: «Accade spesso, signora.» «Lo so» disse Lázara, rinfrancata. «Per questo voglio disfarmene.» Allora capì di trovarsi al di là della farsa, e fu di nuovo se stessa. Senza più preamboli prese dalla borsa i gemelli, l'orologio da taschino, i fermacravatta, le decorazioni d'oro e d'argento, e il resto delle cianfrusaglie personali del presidente, e mise tutto sullo scrittoio. «Anche questo?» domandò il gioielliere. «Tutto» disse Lázara. I franchi svizzeri con cui la pagarono erano così nuovi che temette di macchiarsi le dita con l'inchiostro fresco. Li prese senza contarli, e il gioielliere la congedò sulla soglia con la stessa cerimonia del saluto. Mentre lei usciva, reggendo la porta di cristallo per cederle il passo, la trattenne un istante. «E un'ultima cosa, signora» le disse: «io sono dell'Acquario». La sera sul presto Homero e Lázara portarono il denaro all'albergo. Rifatti i conti, ne mancava ancora un po'. Sicché il presidente si tolse e a mano a mano posò sul letto l'anello matrimoniale, l'orologio con la catena e i gemelli e il fermacravatta che stava usando. Lázara gli restituì l'anello. «Questo no» gli disse. «Un ricordo così non si può vendere.» Il presidente annuì e si rimise l'anello. Lázara gli restituì pure l'orologio da taschino. «Neppure questo» disse. Il presidente non fu d'accordo ma lei lo rimise al suo posto. «Chi può pensare di vendere orologi in Svizzera?» «Ne abbiamo già venduto uno» disse il presidente. «Sì, ma non per l'orologio in sé: era d'oro.» «Anche questo è d'oro» disse il presidente. «Sì» disse Lázara. «Lei può anche rimanere da operare, ma non senza sapere che ora è.» Non accettò neppure la montatura d'oro degli occhiali, anche se lui ne aveva un altro paio di tartaruga. Soppesò i valori che teneva in mano, e mise fine ai suoi dubbi. «E poi» disse, «con questi basta.» Prima di uscire, raccolse la biancheria bagnata, senza domandargli nulla, e se la portò via per asciugarla e stirarla a casa. Si allontanarono sulla motoretta, Homero che guidava e Lázara dietro, stretta a lui. La luce dei lampioni si era appena accesa nell'imbrunire malva. Il vento aveva trascinato via le ultime foglie, e gli alberi sembravano fossili spennacchiati. Un rimorchiatore scendeva lungo il Rodano con una radio a pieno volume che lasciava per le strade una scia di musica. Georges Brassens cantava: «"Mon amour tiens bien la barre, le temps va passer par là, et le temps est un barbare dans le genre d'Attila, par là où son cheval passe l'amour ne repousse pas"». Homero e Lázara correvano in silenzio ubriacati dalla canzone e dall'odore memorabile dei giacinti. Dopo un po', lei parve svegliarsi da un lungo sonno. «Cazzo» disse. «Cosa?» «Quel povero vecchio» disse Lázara. «Che vita di merda!» Il venerdì successivo, 7 ottobre, il presidente subì un intervento di cinque ore che per il momento lasciò le cose oscure come lo erano prima. A rigore, l'unica consolazione fu sapere che era sempre vivo. Dopo dieci giorni lo trasferirono in una stanza insieme ad altri malati, e fu possibile visitarlo. Era un altro: disorientato e smunto, e con certi capelli radi che gli si staccavano al solo contatto col guanciale. Dell'antica prestanza gli rimaneva solo la scioltezza delle mani. Il suo primo tentativo di camminare con due bastoni ortopedici fu scoraggiante. Lázara rimaneva a dormire accanto a lui per risparmiargli la spesa di un'infermiera notturna. Uno dei malati della stanza passò la prima notte gridando per il panico della morte. Quelle veglie interminabili misero fine alle ultime reticenze di Lázara. Quattro mesi dopo l'arrivo a Ginevra, lo dimisero. Homero, amministratore meticoloso dei suoi fondi esigui, saldò il conto dell'ospedale e lo portò via con l'ambulanza aiutato dai colleghi che lo fecero salire fino all'ottavo piano. Si installò nella camera dei bambini, che non riuscì mai a riconoscere, e a poco a poco fece ritorno alla realtà. Si impegnò negli esercizi di rieducazione con un rigore militare, e riprese a camminare solo col suo bastone. Ma sebbene vestito con i buoni abiti di un tempo era molto lontano dall'essere quello di prima, sia nell'aspetto sia nel modo di essere. Timoroso dell'inverno che si annunciava molto rigido, e che in realtà fu il più crudo di quanto rimaneva del secolo, decise di tornare con una nave che salpava da Marsiglia il 13 dicembre, contro il parere dei medici che volevano tenerlo ancora un po' sotto controllo. All'ultimo momento il denaro non fu sufficiente, e Lázara volle integrarlo di nascosto dal marito intaccando di nuovo i risparmi dei figli, ma pure lì trovò meno di quanto supponeva. Allora Homero le confessò che ne aveva preso di nascosto da lei per saldare il conto dell'ospedale. «Bene» si rassegnò Lázara. «Diciamo che era il nostro figlio più vecchio.» L'11 dicembre lo sistemarono sul treno per Marsiglia sotto una forte bufera di neve, e solo quando furono rincasati trovarono una lettera di commiato sul comodino dei bambini. Sempre lì aveva lasciato la sua fede matrimoniale per Bárbara, insieme a quella della moglie morta, che non aveva mai cercato di vendere, e l'orologio da taschino per Lázaro. Siccome era domenica, alcuni originari dei Caraibi che avevano scoperto il segreto erano accorsi alla stazione di Cornavin con un gruppo di arpe di Veracruz. Il presidente era senza fiato, col suo soprabito da sciattone e una lunga sciarpa a colori che era stata di Lázara, ma anche così rimase sul predellino dell'ultima carrozza congedandosi col cappello sotto le raffiche della bufera. Il treno cominciava ad accelerare quando Homero si accorse che il bastone era rimasto a lui. Corse fino all'estremità del marciapiede e lo lanciò con abbastanza forza perché il presidente lo prendesse, ma cadde fra le ruote e venne spezzato. Fu un istante di orrore. L'ultima cosa che Lázara vide fu la mano tremula tesa per afferrare il bastone che non raggiunse mai, e il controllore del treno che riuscì ad acchiappare per la sciarpa il vecchio coperto di neve, e lo riscattò dal vuoto. Lázara corse spaventata incontro al marito cercando di ridere fra le lacrime. «Dio mio» gli gridò, «quell'uomo non morirà mai.» Arrivò sano e salvo, secondo quanto annunciò nel suo lungo telegramma di ringraziamento. Non si seppe più nulla di lui per oltre un anno. Infine arrivò una lettera di sei fogli scritti a mano in cui era ormai impossibile riconoscerlo. Il dolore era tornato, intenso e puntuale come prima, ma lui aveva deciso di non badargli e di vivere la vita così come veniva. Il poeta Aimé Césaire gli aveva regalato un altro bastone con incrostazioni di madreperla, ma aveva risolto di non usarlo più. Erano sei mesi che mangiava carne regolarmente, e ogni tipo di frutti di mare, ed era capace di bersi anche venti tazze al giorno di caffè amaro. Ma non ne leggeva più i fondi perché i suoi pronostici si rivelavano sempre al rovescio. Il giorno in cui aveva compiuto settantacinque anni si era bevuto qualche bicchierino dello squisito rum della Martinica, che gli aveva fatto benissimo, e aveva ripreso a fumare. Non si sentiva meglio, naturalmente, ma neppure peggio. Tuttavia, il motivo autentico della lettera era comunicar loro che si sentiva tentato di tornare nel suo paese per mettersi alla testa di un movimento rinnovatore, per una causa giusta e una patria degna, fosse anche solo per la gloria meschina di non morire vecchio nel suo letto. In quel senso, concludeva la lettera, il viaggio a Ginevra era stato provvidenziale. giugno 1979. La santa. Ventidue anni dopo rividi Margarito Duarte. Comparve d'improvviso in uno dei vicoli segreti di Trastevere, e feci fatica a riconoscerlo subito per via del suo spagnolo stentato e del suo bell'aspetto da romano antico. Aveva i capelli bianchi e radi, e non gli rimaneva traccia del portamento lugubre e degli abiti cimiteriali da avvocato andino con cui era giunto a Roma per la prima volta, ma nel corso della conversazione riuscii a riscattarlo a poco a poco dalle perfidie degli anni e lo rividi così com'era: cauto, imprevedibile, e con la tenacia di uno schiacciasassi. Prima della seconda tazza di caffè in uno dei nostri bar di un tempo, mi azzardai a fargli la domanda che mi rodeva dentro. «Che ne è stato della santa?» «E' sempre lì la santa» mi rispose. «Che aspetta.» Solo il tenore Rafael Ribero Silva e io potevamo capire la terribile carica umana della sua risposta. Conoscevamo così bene il suo dramma, che per anni avevo pensato che Margarito Duarte fosse il personaggio in cerca d'autore che noi romanzieri aspettiamo per tutta una vita, e se non avevo mai permesso che mi trovasse era stato perché la fine della sua storia mi sembrava inimmaginabile. Era arrivato a Roma in quella primavera radiosa in cui Pio Dodicesimo soffriva di una crisi di singhiozzo che né le buone né le male arti di medici e mediconi erano riuscite a sconfiggere. Si allontanava per la prima volta dal suo diruto villaggio del Tolima, sulle Ande colombiane, e glielo si notava persino nel modo di dormire. Si presentò una mattina al nostro consolato con la valigia di pino lustro che dalla forma e dalla grandezza sembrava la custodia di un violoncello, ed espose al console il motivo stupefacente del suo viaggio. Il console telefonò allora al tenore Rafael Ribero Silva, suo compatriota, affinché gli trovasse una stanza nella pensione dove vivevamo entrambi. Così lo conobbi. Margarito Duarte non si era spinto oltre le elementari, ma la sua vocazione per le belle lettere gli aveva permesso una formazione più ampia grazie alla lettura appassionata di qualsiasi materiale a stampa gli fosse venuto fra le mani. A diciotto anni, lavorando come impiegato al municipio, si era sposato con una bella ragazza che era morta di lì a poco mentre partoriva la prima figlia. Questa, ancora più bella della madre, era morta di una febbre generica a sette anni. Ma la vera storia di Margarito Duarte era cominciata sei mesi prima del suo arrivo a Roma, quando si era dovuto trasferire il cimitero del suo villaggio per costruire una pescaia. Come tutti gli abitanti della regione, Margarito aveva dissotterrato le ossa dei suoi morti per portarli nel cimitero nuovo. Sua moglie era polvere. Nella tomba attigua, invece, la bambina era ancora intatta dopo undici anni. A tal punto, che quando avevano aperto la bara si era sentito il profumo delle rose fresche con cui l'avevano sepolta. Il fatto più stupefacente, tuttavia, era che il corpo non aveva peso. Centinaia di curiosi, attratti dal clamore del miracolo, avevano invaso il villaggio. Non c'erano dubbi. L'incorruttibilità del corpo era un sintomo inequivocabile della santità, e persino il vescovo della diocesi aveva ritenuto che un simile prodigio doveva essere sottoposto al verdetto del Vaticano. Sicché si fece una colletta pubblica affinché Margarito Duarte si recasse a Roma, a battagliare per una causa che non era più solo sua né del ristretto ambito del villaggio, ma una faccenda della nazione. Mentre ci raccontava la sua storia nella pensione del tranquillo quartiere dei Parioli, Margarito Duarte tolse il lucchetto e aprì il coperchio del grazioso baule. Fu così che il tenore Ribero Silva e io fummo partecipi del miracolo. Non sembrava una mummia vizza come quelle che si vedono in tanti musei del mondo, ma una bambina vestita da sposa che fosse rimasta addormentata dopo una lunga permanenza sotto terra. La pelle era tersa e tiepida, e gli occhi aperti erano diafani, e suscitavano l'impressione intollerabile che ci vedessero dalla morte. Il raso e le zagare finte della corona non avevano resistito ai rigori del tempo in buona salute come la pelle, ma le rose che le avevano messo fra le mani erano sempre vive. Il peso della custodia di pino, in effetti, rimase lo stesso quando ne tirammo fuori il corpo. Margarito Duarte avviò i suoi tramiti il giorno dopo l'arrivo. All'inizio con un aiuto diplomatico più compassionevole che efficace, e poi con ogni scaltrezza che gli venne in mente per superare gli innumerevoli ostacoli del Vaticano. Fu sempre riservatissimo sulle sue incombenze, ma si sapeva che erano numerose e inutili. Si metteva in contatto con tutte le congreghe religiose e le fondazioni umanitarie in cui si imbatteva, dove lo ascoltavano con attenzione ma senza stupore, e gli promettevano interventi immediati che non sortirono mai alcun effetto. Il fatto è che quel periodo non fu il più propizio. Tutto quanto aveva a che fare con la Santa Sede era stato rinviato finché il Papa non avesse superato la crisi di singhiozzo, resistente non solo ai più raffinati espedienti della medicina accademica, ma anche a ogni sorta di rimedi magici che gli mandavano da tutto il mondo. Infine, nel mese di luglio, Pio Dodicesimo si riprese e si recò per le sue vacanze estive a Castelgandolfo. Margarito portò la santa alla prima udienza settimanale con la speranza di mostrargliela. Il Papa si fece vedere nel cortile interno, su un balcone così basso che Margarito riuscì a scorgergli le unghie nette e a cogliere il suo fiato di lavanda. Ma non passò fra i turisti che venivano da tutto il mondo per vederlo, come Margarito sperava, limitandosi a pronunciare lo stesso discorso in sei lingue e finendo con la benedizione generale. Dopo tutta una serie di rinvii, Margarito decise di affrontare le cose di persona, e consegnò alla Segreteria di Stato una lettera scritta a mano di quasi sessanta pagine, che non ebbe risposta. Lui l'aveva previsto, perché il funzionario che l'aveva ritirata con le formalità di rigore si era appena degnato di dare un'occhiata ufficiale alla bambina morta, e gli impiegati che passavano lì vicino la guardavano senza alcun interesse. Uno di loro gli raccontò che l'anno prima avevano ricevuto più di ottocento lettere che sollecitavano la santificazione di cadaveri intatti in diversi luoghi del mondo. Margarito chiese infine che si constatasse la mancanza di peso del corpo. Il funzionario la constatò, ma rifiutò di ammetterla. «Dev'essere un caso di suggestione collettiva» disse. Nelle scarse ore libere e nelle aride domeniche estive, Margarito rimaneva nella sua stanza, accanendosi nella lettura di qualsiasi libro gli sembrasse interessante per la sua causa. Alla fine di ogni mese, di sua iniziativa, scriveva in un quaderno da scolaro una relazione minuziosa delle sue spese con calligrafia ricercata da abile amanuense, per rendere conti esatti e tempestivi ai contribuenti del suo villaggio. Prima che l'anno fosse finito conosceva i dedali di Roma come se vi fosse nato, parlava un italiano facile e scarso di parole come il suo spagnolo andino, e ne sapeva quant'altri mai sui processi di canonizzazione. Ma trascorse ancora molto tempo prima che si cambiasse il vestito funebre, e il panciotto e il cappello da magistrato che nella Roma dell'epoca erano tipici di certe società segrete dagli obiettivi inconfessabili. Se ne usciva molto presto con la custodia della santa, e talvolta tornava a notte tarda, esausto e triste, ma sempre con un residuo di luce che gli infondeva nuovo vigore per il giorno successivo. «I santi vivono nel loro tempo» diceva. Io mi trovavo a Roma per la prima volta, a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, e vissi il suo calvario con un'intensità indimenticabile. La pensione dove abitavamo era in realtà un appartamento moderno a pochi passi da Villa Borghese, la cui proprietaria occupava due camere e ne affittava quattro a studenti stranieri. La chiamavamo Maria Bella, ed era attraente ed esuberante nella pienezza del suo autunno, e sempre fedele alla sacra norma per cui ognuno è re assoluto dentro la sua stanza. In realtà, a reggere il peso della vita quotidiana era la sorella maggiore, zia Antonietta, un angelo senza ali che lavorava a ore per lei durante la giornata, e girava dappertutto con secchio e scopa di saggina lustrando più del possibile i marmi del pavimento. Fu lei a insegnarci a mangiare gli uccelletti canterini che cacciava Bartolino, suo marito, per una brutta abitudine che gli era rimasta dalla guerra, e fu lei che avrebbe finito per portarsi Margarito a vivere a casa sua quando non gli fu più possibile permettersi i prezzi di Maria Bella. Nulla di meno adatto al modo di essere di Margarito che quella casa senza legge. Ogni ora ci riserbava una novità, persino all'alba, quando ci svegliava il ruggito spaventoso del leone dello zoo di Villa Borghese. Il tenore Ribero Silva si era guadagnato il privilegio che i romani non se la prendessero per le sue prove mattutine. Si alzava alle sei, faceva il suo bagno medicinale di acqua gelata e si aggiustava la barba e le sopracciglia da Mefistofele, e solo quando era ormai pronto con la vestaglia a quadri scozzesi, la sciarpa di seta cinese e la sua acqua di colonia personale, si abbandonava corpo e anima agli esercizi di canto. Spalancava la finestra della camera, anche con le stelle dell'inverno, e cominciava a scaldarsi la voce con fraseggi progressivi di grandi arie d'amore, finché non si lanciava a cantarle a piena voce. L'aspettativa quotidiana era che quando prorompeva nel do di petto gli rispondeva il leone di Villa Borghese con un ruggito da terremoto. «Sei San Marco reincarnato, figlio mio» esclamava zia Antonietta davvero stupita. «Solo lui riusciva a parlare con i leoni.» Una mattina non fu il leone a dargli la replica. Il tenore iniziò il duetto d'amore dell'"Otello": "Già nella notte densa s'estingue ogni clamor". D'improvviso, dal fondo del cortile, ci arrivò la risposta in una bella voce da soprano. Il tenore proseguì, e le due voci cantarono il pezzo completo, a diletto del vicinato che aprì le finestre per santificare le sue case col torrente di quell'amore irresistibile. Il tenore fu sul punto di svenire quando venne a sapere che la sua Desdemona invisibile era nientemeno che la grande Maria Caniglia. Ho l'impressione che fu quell'episodio a fornire un motivo valido a Margarito Duarte per inserirsi nella vita della casa. A partire da allora sedette insieme a tutti gli altri alla tavola comune e non più in cucina, come all'inizio, dove zia Antonietta lo viziava quasi ogni giorno col suo squisito stufato di uccelletti canterini. Maria Bella ci leggeva dopo i pasti i quotidiani del giorno per abituarci alla fonetica italiana, e completava le notizie con un'arbitrarietà e un garbo che ci rallegravano la vita. Uno di quei giorni raccontò, a proposito della santa, che nella città di Palermo c'era un enorme museo con i cadaveri incorrotti di uomini, donne e bambini, e persino vari vescovi, dissotterrati da uno stesso cimitero dei cappuccini. La notizia inquietò talmente Margarito, che non ebbe un istante di pace finché non ci recammo a Palermo. Ma gli bastò un'occhiata veloce alle cupe gallerie di mummie senza gloria per farsene un'idea e consolarsi. «Non sono lo stesso caso» disse. «Questi si nota subito che sono morti.» Dopo il pranzo Roma soccombeva al sopore di agosto. Il sole di mezzogiorno rimaneva immobile al centro del cielo, e nel silenzio delle due del pomeriggio si udiva solo il rumore dell'acqua, che è la voce naturale di Roma. Ma verso le sette di sera le finestre si aprivano d'improvviso per attrarre l'aria fresca che cominciava a muoversi, e una folla giubilante usciva in strada senza altro proposito che quello di vivere, in mezzo agli scoppi delle motociclette, alle grida dei venditori di anguria e alle canzoni d'amore tra i fiori delle terrazze. Il tenore e io non facevamo la siesta. Andavamo con la sua vespa, lui che guidava e io dietro, e portavamo gelati e cioccolatini alle puttanelle estive che sfarfalleggiavano sotto gli allori centenari di Villa Borghese, in cerca di turisti desti in pieno sole. Erano belle, povere e affettuose, come la maggioranza delle italiane di quei tempi, vestite di organza azzurra, di popeline rosa, di lino verde, e si proteggevano dal sole con gli ombrellini tarmati dalle piogge della guerra recente. Era un piacere umano stare con loro, perché infrangevano le leggi del mestiere, e si concedevano il lusso di perdere un buon cliente per venire con noi a prendere un caffè e a far due chiacchiere al bar dell'angolo, o a passeggiare sulle carrozzelle a nolo lungo i sentieri del parco, o a rattristarci con i re detronizzati e le loro amanti tragiche che all'imbrunire cavalcavano nel galoppatoio. Più di una volta facevamo da interpreti con qualche americano smarrito. Non fu a causa di loro che portammo Margarito Duarte a Villa Borghese, ma affinché conoscesse il leone. Viveva in libertà su un isolotto desertico circondato da un fossato profondo, e non appena ci ebbe scorti sull'altra sponda prese a ruggire con un'irrequietezza che meravigliò il guardiano. I visitatori del parco accorsero stupiti. Il tenore cercò di farsi riconoscere col suo do di petto mattutino, ma il leone non gli badò. Sembrava ruggire contro tutti noi senza distinzione, ma il custode si accorse subito che ruggiva solo per Margarito. Così fu: se lui si muoveva il leone si muoveva, e non appena si nascondeva smetteva di ruggire. Il custode, che era laureato in lettere classiche all'università di Siena, pensò che Margarito quel giorno fosse stato con altri leoni che gli avevano attaccato il loro odore. Tranne questa spiegazione, che era vana, non gliene venne in mente un'altra. «Comunque» disse, «non sono ruggiti di guerra ma di compassione.» Tuttavia, a impressionare il tenore Ribero Silva non fu quell'episodio sovrannaturale, bensì la commozione di Margarito quando si fermarono a chiacchierare con le ragazze del parco. Ne parlò a tavola, e taluni per malizia, talaltri per comprensione, fummo tutti d'accordo che sarebbe stato un bel gesto aiutare Margarito a risolvere la sua solitudine. Commossa dalla debolezza dei nostri cuori, Maria Bella si strinse sul petto da grande madre biblica le mani ricoperte di anelli di bigiotteria. «Io lo farei per carità» disse, «non fosse che non ci sono mai riuscita con gli uomini che portano il panciotto.» Fu così che il tenore passò per Villa Borghese alle due del pomeriggio, e si caricò dietro la sua vespa la farfallina che gli sembrò più propizia per fornire un'ora di buona compagnia a Margarito Duarte. La fece spogliare nella sua camera, la lavò con sapone profumato, l'asciugò, la cosparse con la sua acqua di colonia personale, e le incipriò tutto il corpo col suo talco canforato da dopobarba. Infine le pagò il tempo che avevano già fatto passare e un'altra ora, e le indicò per filo e per segno quel che doveva fare. La bella attraversò nuda e in punta di piedi la casa in penombra, come un sogno della siesta, e bussò con due colpetti teneri alla camera in fondo. Margarito Duarte, scalzo e senza camicia, aprì la porta. «Buonasera, giovanotto» gli disse lei, con voce e modi da collegiale. «Mi manda il tenore.» Margarito incassò il colpo con grande dignità. Aprì bene la porta per farla entrare, e lei si distese sul letto mentre lui si infilava in gran fretta la camicia e le scarpe per darle ascolto col dovuto rispetto. Poi le si sedette accanto su una seggiola, e avviò la conversazione. Stupita, la ragazza gli disse che si affrettasse, perché disponevano solo di un'ora. Lui non le badò. La ragazza disse poi che sarebbe comunque rimasta per tutto il tempo che lui avesse voluto senza fargli pagare un soldo, perché non poteva esserci al mondo un uomo capace di comportarsi meglio. Senza saper che fare mentre passava il tempo, perquisì la stanza con lo sguardo, e scoprì la custodia di legno sopra il camino. Domandò se era un sassofono. Margarito non le rispose, ma socchiuse la persiana affinché entrasse un po' di luce, portò la custodia sul letto e sollevò il coperchio. La ragazza cercò di dire qualcosa, ma le cascò giù la mascella. O come poi ci disse: «Mi si gelò il culo». Scappò via spaventata, ma sbagliò direzione in corridoio, e si scontrò con zia Antonietta che stava venendo a cambiare una lampadina nella mia stanza. Fu tale lo spavento di entrambe, che la ragazza non osò uscire dalla camera del tenore sino a notte fatta. Zia Antonietta non seppe mai cos'era successo. Entrò nella mia stanza così impaurita, che non riusciva ad avvitare la lampadina per il tremito delle mani. Le domandai cosa succedeva. «E' che in questa casa si prendono certi spaventi» mi disse. «E adesso anche in pieno giorno.» Mi raccontò con grande convinzione che, durante la guerra, un ufficiale tedesco aveva sgozzato la sua amante nella stanza che occupava il tenore. Spesso, mentre faceva i mestieri, zia Antonietta aveva visto l'apparizione della bella assassinata che seguiva i suoi passi lungo i corridoi. «L'ho appena vista che camminava tutta nuda per il corridoio» disse. «Era precisa identica.» La città riprese le sue abitudini in autunno. Le terrazze fiorite dell'estate si chiusero ai primi venti, e il tenore e io tornammo alla vecchia trattoria di Trastevere dove cenavamo insieme agli alunni di canto del conte Carlo Calcagni, e a taluni miei compagni della scuola di cinema. Fra questi ultimi, il più assiduo era Lakis, un greco intelligente e simpatico, il cui unico difetto erano i discorsi soporiferi sull'ingiustizia sociale. Per fortuna, i tenori e i soprani riuscivano quasi sempre a farlo tacere con pezzi d'opera cantati a piena voce, che tuttavia non disturbavano nessuno neanche dopo la mezzanotte. Al contrario, certi nottambuli di passaggio si univano al coro, e nel vicinato si aprivano finestre per applaudire. Una notte, mentre cantavamo, Margarito entrò in punta di piedi per non interromperci. Recava con sé la custodia di pino che non aveva avuto il tempo di lasciare alla pensione dopo aver mostrato la santa al parroco di San Giovanni in Laterano, la cui influenza presso la Santa Congregazione dei Riti era di dominio pubblico. Riuscii a vedere con la coda dell'occhio che la riponeva sotto un tavolo appartato, e si sedette mentre finivamo di cantare. Come sempre accadeva verso la mezzanotte, riunimmo diversi tavoli mentre la trattoria cominciava a vuotarsi, e restammo insieme noi che cantavamo, che discutevamo di cinema, e gli amici di tutti. E fra questi, Margarito Duarte, che lì era già conosciuto come il colombiano silenzioso e triste di cui nessuno sapeva nulla. Lakis, incuriosito, gli domandò se suonava il violoncello. Io ebbi un sussulto dinanzi a quanto mi sembrò un'indiscrezione cui era difficile sottrarsi. Il tenore, a disagio come me, non riuscì a rimediare la situazione. Margarito fu l'unico che prese la domanda con tutta naturalezza. «Non è un violoncello» disse. «E' la santa.» Posò la cassetta sopra il tavolo, aprì il lucchetto e sollevò il coperchio. Una ventata di stupore percorse il ristorante. Gli altri clienti, i camerieri, e infine quelli della cucina con i loro grembiuli insanguinati, si assieparono attoniti a contemplare il prodigio. Taluni si fecero il segno della croce. Una delle cuoche si inginocchiò a mani giunte, in preda a un tremor di febbre, e pregò in silenzio. Tuttavia, passata la commozione iniziale, ci addentrammo fra grida in una discussione sull'insufficienza della santità ai nostri tempi. Lakis, naturalmente, fu il più radicale. L'unico punto che infine rimase chiaro fu la sua idea di girare un film critico sul tema della santa. «Sono sicuro» disse «che il vecchio Cesare non si lascerebbe sfuggire questo tema.» Si riferiva a Cesare Zavattini, il nostro maestro di soggetto e sceneggiatura, uno dei grandi della storia del cinema e l'unico che intrattenesse con noi un rapporto personale ai margini della scuola. Cercava di insegnarci non solo il mestiere, ma anche un modo diverso di vedere la vita. Era una macchina per pensare soggetti. Gli venivano a fiotti, quasi contro la sua volontà. E con tale fretta, che aveva sempre bisogno dell'aiuto di qualcuno per pensarli ad alta voce e acchiapparli al volo. Solo che quando li aveva portati a termine si scoraggiava. «Peccato che si debba farne un film» diceva. Perché pensava che sullo schermo avrebbe perso molto della sua magia originale. Conservava le idee su schede ordinate per argomenti e attaccate con puntine alle pareti, e ne aveva così tante che occupavano una stanza di casa sua. Il sabato successivo andammo a trovarlo con Margarito Duarte. Era così goloso della vita, che lo trovammo sulla soglia della sua casa in via Angela Merici, ardente d'ansia per l'idea che gli avevamo annunciato al telefono. Non ci salutò neppure con la consueta cortesia, ma guidò Margarito fino a un tavolo già preparato, e lui stesso aprì la custodia. Allora accadde quel che meno immaginavamo. Invece di impazzire, com'era prevedibile, ebbe una sorta di paralisi mentale. «Ammazza!» mormorò spaventato. Guardò la santa in silenzio per due o tre minuti, chiuse la custodia lui stesso, e senza dire nulla condusse Margarito verso la porta, come un bambino che facesse i primi passi. Lo congedò con qualche leggera pacca sulle spalle. «Grazie, figliolo, mille grazie» gli disse. «E che Dio ti accompagni nella tua lotta.» Quando ebbe chiuso la porta si volse verso di noi, e ci comunicò il suo verdetto. «Non serve per il cinema» disse. «Nessuno ci crederebbe.» Quella lezione stupefacente ci accompagnò sul tram al ritorno. Se lo diceva lui, non era proprio il caso di pensarci: la storia non serviva. Tuttavia, Maria Bella ci accolse col messaggio urgente che Zavattini ci aspettava quella stessa sera, ma senza Margarito. Lo trovammo in uno dei suoi momenti stellari. Lakis aveva portato due o tre condiscepoli, ma quando aprì la porta lui non sembrò neppure vederli. «Ci siamo» gridò. «Il film sarà una bomba se Margarito fa il miracolo di resuscitare la bambina.» «Nel film o nella vita?» gli domandai. Lui represse la contrarietà. «Non essere stupido» mi disse. Ma subito gli vedemmo negli occhi lo scintillio di un'idea irresistibile. «A meno che sia capace di resuscitarla nella vita reale» disse, e rifletté seriamente: «Dovrebbe provarci.» Fu solo una tentazione momentanea, prima di riprendere il filo. Cominciò a girare per la casa, come un pazzo felice, gesticolando con le mani e raccontando il film ad alta voce. Lo ascoltavamo esterrefatti, con l'impressione di star vedendo le immagini come uccelli fosforescenti che gli sfuggissero a frotte e volassero impazziti per tutta la casa. «Una sera» disse, «dopo la morte di una ventina di papi che non l'hanno ricevuto, Margarito entra in casa sua, stanco e vecchio, apre la cassa, accarezza il viso della piccola morta, e le dice con tutta la tenerezza del mondo: "Per amore di tuo padre, piccola: alzati e cammina".» Ci guardò tutti, e concluse con un gesto trionfale: «E la bambina si alza!» Si aspettava qualcosa da noi. Ma eravamo così perplessi, che non sapevamo cosa dire. Tranne Lakis, il greco, che alzò un dito, come a scuola, per chiedere la parola. «Davvero non posso crederci» disse, e dinanzi alla nostra sorpresa, si rivolse direttamente a Zavattini: «Mi perdoni, maestro, ma non posso crederci». Allora fu Zavattini a rimanere attonito. «E perché no?» «Che ne so?» disse Lakis, dispiaciuto. «E' che non può essere.» «Ammazza!» gridò allora il maestro, con uno strepito che si dovette udire in tutto il quartiere. «E' quel che più mi disturba degli stalinisti: che non credono nella realtà.» Nei quindici anni successivi, come lui stesso mi raccontò, Margarito portò la santa a Castelgandolfo nel tentativo di mostrarla. Durante un'udienza di circa duecento pellegrini dell'America latina riuscì a raccontare la sua storia, fra spintoni e gomitate, al benevolo Giovanni Ventitreesimo. Ma non gli fu possibile mostrargli la bambina perché aveva dovuto lasciarla all'entrata, insieme agli zaini di altri pellegrini, nell'eventualità di un attentato. Il Papa lo ascoltò con tutta l'attenzione che gli fu possibile tra la folla, e gli diede sulla guancia un buffetto di incoraggiamento. «Bravo, figlio mio» gli disse. «Dio premierà la tua perseveranza.» Tuttavia, il momento in cui davvero si sentì sul punto di realizzare il suo sogno fu durante il regno fugace del sorridente Albino Luciani. Un suo parente, colpito dalla storia di Margarito, gli aveva promesso di intervenire. Nessuno gli diede retta. Ma due giorni dopo, mentre pranzavano, qualcuno chiamò alla pensione con un messaggio veloce e semplice per Margarito: non doveva muoversi da Roma, perché prima di giovedì sarebbe stato chiamato dal Vaticano per un'udienza privata. Non si seppe mai se era stato uno scherzo. Margarito credeva di no, e rimase all'erta. Non uscì di casa. Se doveva andare in bagno lo annunciava ad alta voce: «Vado in bagno». Maria Bella, sempre graziosa nei primi albori della vecchiaia, se ne usciva nella sua risata di donna libera. «Lo sappiamo, Margarito» gridava, «casomai ti chiamasse il Papa.» Il martedì successivo, due giorni prima della comunicazione annunciata, Margarito crollò davanti al titolo sul giornale che fecero scivolare sotto la porta: "Morto il Papa". Per un istante lo sorresse l'illusione che fosse un giornale vecchio consegnato per sbaglio, perché non era facile credere che morisse un papa al mese. Ma così fu: il sorridente Albino Luciani, eletto trentatré giorni prima, era stato trovato morto nel suo letto. Tornai a Roma ventidue anni dopo che avevo conosciuto Margarito Duarte, e forse non avrei pensato a lui se non l'avessi incontrato per caso. Io ero troppo oppresso dal trascorrere del tempo per pensare a chicchessia. Cadeva senza tregua una pioviggine stupida come brodo tiepido, la luce di diamante dei vecchi tempi era diventata torbida, e i luoghi che erano stati miei e nutrivano le mie nostalgie erano altri ed estranei. La casa dov'era la pensione era sempre la stessa, ma nessuno seppe ragguagliarmi su Maria Bella. Nessuno rispondeva ai sei numeri telefonici che il tenore Ribero Silva mi aveva mandato attraverso gli anni. Durante un pranzo con la nuova gente di cinema evocai il ricordo del mio maestro, e un silenzio improvviso aleggiò sulla tavola per un istante, finché qualcuno osò dire: «Zavattini? Mai sentito.» Così era: nessuno aveva udito parlare di lui. Gli alberi di Villa Borghese erano arruffati sotto la pioggia, il galoppatoio delle principesse tristi era stato divorato da una malerba senza fiori, e le belle di un tempo erano state sostituite da atleti androgini travestiti da ganimedi. L'unico sopravvissuto di una fauna estinta era il vecchio leone, scabbioso e rauco, nella sua isola di acque vizze. Nessuno cantava né moriva d'amore nelle trattorie plastificate di piazza di Spagna. La Roma delle nostre nostalgie era ormai un'altra Roma antica dentro l'antica Roma dei Cesari. D'improvviso, una voce che poteva venire dall'aldilà mi bloccò in un vicolo di Trastevere: «Salve, poeta.» Era lui, vecchio e stanco. Erano morti cinque papi, la Roma eterna mostrava i primi sintomi della decrepitezza, e lui continuava ad aspettare. «Ho aspettato tanto che non può più mancare molto» mi disse congedandosi, dopo quasi quattro ore di rievocazioni. «Può essere cosa di mesi.» Se ne andò strascicando i piedi in mezzo alla strada, con i suoi stivali da guerra e il suo berretto stinto da vecchio romano, senza badare alle pozzanghere di pioggia in cui la luce cominciava a marcire. Allora non ebbi più dubbi, se mai ne avevo avuti, che il santo era lui. Senza rendersene conto, attraverso il corpo incorrotto di sua figlia, erano ormai ventidue anni che viveva lottando per la causa legittima della propria canonizzazione. agosto 1981. L'aereo della bella addormentata. Era bella, elastica, con una pelle morbida color del pane e gli occhi di mandorle verdi, e aveva i capelli lisci e neri e lunghi fin sulla schiena, e un'aura di antichità che poteva essere dell'Indonesia come delle Ande. Era vestita con un gusto sottile: giacca di lince, camicetta di seta naturale a fiori molto tenui, pantaloni di lino grezzo, e scarpe lineari color delle buganvillee. "Questa è la donna più bella che abbia mai visto in vita mia" pensai quando la vidi passare col suo silenzioso incedere da leonessa, mentre io facevo la coda per imbarcarmi sull'aereo per New York all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi. Fu un'apparizione sovrannaturale che esistette solo un istante e scomparve tra la folla dell'atrio. Erano le nove del mattino. Stava nevicando fin dalla notte prima, e il traffico era più fitto del solito per le vie della città, e più lento ancora sull'autostrada, e c'erano camion da carico allineati sul margine, e automobili fumanti nella neve. Nell'atrio dell'aeroporto, invece, la vita era sempre in primavera. Io facevo la fila per il check-in dietro una vecchia olandese che rimase quasi un'ora a discutere sul peso delle sue undici valigie. Cominciavo ad annoiarmi quando vidi l'apparizione istantanea che mi aveva lasciato senza respiro, sicché non seppi come finì la disputa, finché l'impiegata non mi riportò sulla terra con un rimprovero per la mia distrazione. A titolo di scusa le domandai se credeva negli amori a prima vista. «Certamente» mi disse. «Quelli impossibili sono gli altri.» Se ne rimase con lo sguardo fisso sullo schermo del computer, e mi domandò che posto preferivo: per fumatori o per non fumatori. «E' lo stesso» le dissi con intenzione, «purché non sia accanto alle undici valigie.» Lei mi ringraziò con un sorriso commerciale ma senza scostare lo sguardo dallo schermo fosforescente. «Scelga un numero» mi disse: «tre, quattro o sette». «Quattro.» Il suo sorriso ebbe allora un bagliore trionfale. «In quindici anni che lavoro qui» disse «è il primo a non scegliere il sette.» Segnò sulla carta di imbarco il numero del posto e me la consegnò col resto dei miei documenti, guardandomi per la prima volta con certi occhi color uva che mi servirono da consolazione finché non avessi rivisto la bella. Solo allora mi avvertì che l'aeroporto era stato appena chiuso e che tutti i voli erano rinviati. «Fin quando?» «Lo sa Dio» disse col suo sorriso. «Questa mattina la radio ha annunciato che sarà la nevicata più intensa di tutto l'anno.» Si sbagliò: fu la più intensa di tutto il secolo. Ma nella sala di prima classe la primavera era così reale che c'erano rose fresche nei vasi e persino la musica in scatola sembrava sublime e sedativa come asserivano i suoi creatori. D'improvviso mi venne da pensare che quello era un rifugio adatto alla bella, e la cercai nelle altre sale, rabbrividendo per la mia audacia. Ma perlopiù erano uomini della vita reale che leggevano giornali in inglese mentre le mogli pensavano ad altri, contemplando gli aerei morti nella neve attraverso le vetrate panoramiche, contemplando le fabbriche glaciali, i vasti vivai di Roissy devastati dai leoni. Dopo il mezzogiorno non c'era più uno spazio disponibile, e il caldo era diventato così insopportabile che scappai via per respirare. Fuori trovai uno spettacolo incredibile. Gente di ogni risma aveva invaso le sale d'attesa, ed era accampata nei corridoi soffocanti, e anche nelle scale, coricata a terra con gli animali e i bambini, e i bagagli. Anche le comunicazioni con la città erano interrotte, e il palazzo di plastica trasparente sembrava un'immensa capsula spaziale arenata nella bufera. Non riuscii a evitare l'idea per cui anche la bella doveva essere in qualche posto in mezzo a quelle orde mansuete, e tale fantasia mi infuse nuovo coraggio per aspettare. All'ora di pranzo avevamo assunto la nostra consapevolezza di naufraghi. Le code si fecero interminabili davanti ai sette ristoranti, alle tavole calde, ai bar stracolmi, e in meno di tre ore dovettero chiuderli perché non c'era più nulla da mangiare né da bere. I bambini, che per un momento sembravano essere tutti quelli del mondo, si misero a piangere al contempo, e dalla folla prese a levarsi un odor di gregge. Era il momento degli istinti. L'unica cosa che riuscii a mangiare in mezzo al ruffaraffa furono le ultime due coppette di gelato alla crema in un negozio per bambini. Li inghiottii lentamente al banco, mentre i camerieri sistemavano le seggiole sui tavoli a mano a mano che si liberavano, e guardandomi nello specchio in fondo, con l'ultima coppetta di cartone e l'ultimo cucchiaino di cartone, e pensando alla bella. Il volo per New York, previsto per le undici del mattino, partì alle otto di sera. Quando riuscii infine a imbarcarmi, i passeggeri di prima classe erano già al loro posto, e una hostess mi guidò fino al mio. Rimasi senza fiato. Nel sedile accanto, vicino al finestrino, la bella stava prendendo possesso del suo spazio col dominio dei viaggiatori esperti. "Se un giorno dovessi scrivere tutto questo, nessuno mi crederebbe", pensai. E tentai appena con la lingua legata un saluto indeciso che lei non colse. Si installò come per vivere molti anni, disponendo ogni cosa al suo posto e nel suo ordine, finché lo spazio rimase ben sistemato come la casa ideale dove tutto era a portata di mano. Mentre lo faceva, lo steward ci portò lo champagne di benvenuto. Presi una coppa per offrirla a lei, ma me ne pentii in tempo. Accettò solo un bicchier d'acqua, e chiese allo steward, dapprima in un francese inaccessibile e poi in un inglese solo un po' più sciolto, che non la svegliasse per alcun motivo durante il volo. La sua voce grave e tiepida strascicava una tristezza orientale. Quando le ebbero portato l'acqua, si aprì sulle ginocchia un cofanetto da toilette con gli angoli di rame, come i bauli delle nonne, e prese due pillole dorate da un astuccio in cui ce n'erano altre di colori diversi. Faceva ogni cosa in maniera metodica e parsimoniosa, come se non ci fosse nulla che non fosse previsto per lei fin dalla sua nascita. Infine abbassò la tendina del finestrino, reclinò il sedile al massimo, si avvolse nella coperta fino alla vita senza togliersi le scarpe, si mise una mascherina per dormire, si sistemò su un fianco, girandomi la schiena, e si addormentò senza una sola pausa, senza un sospiro, senza un minimo cambiamento di posizione, durante le otto ore eterne e i dodici minuti in più che durò il volo per New York. Fu un viaggio intenso. Ho sempre creduto che non ci sia nulla di più bello al mondo di una donna attraente, sicché mi fu impossibile sottrarmi sia pure per un istante alla malia di quella creatura da favola che mi dormiva accanto. Lo steward era scomparso subito dopo il decollo, e fu sostituito da una hostess cartesiana che cercò di svegliarla per consegnarle la confezione da toilette e gli auricolari per la musica. Le ripetei l'avvertenza che aveva fatto allo steward, ma la hostess insistette per sentirsi dire da lei che non voleva neppure cenare. Dovette confermarglielo lo steward, e anche così mi sgridò perché la bella non si era appesa al collo il cartellino con l'ordine di non svegliarla. Feci una cena solitaria, dicendomi in silenzio tutto quel che avrei detto a lei se fosse stata sveglia. Il suo sonno era così stabile, che a un certo punto ebbi l'inquietudine che le pillole che aveva preso non fossero per dormire ma per morire. Prima di ogni sorso, alzavo il bicchiere e brindavo: «Alla tua salute, bella.» Finita la cena spensero le luci, proiettarono il film per nessuno, e noi due rimanemmo soli nella penombra del mondo. La bufera più intensa del secolo era passata, la notte dell'Atlantico era immensa e limpida, e l'aereo sembrava immobile fra le stelle. Allora la contemplai palmo a palmo per diverse ore, e l'unico segno di vita che riuscii a cogliere furono le ombre dei sogni che le passavano sulla fronte come le nuvole sull'acqua. Aveva al collo una catenella così sottile che era quasi invisibile sulla sua pelle d'oro, e le orecchie perfette senza fori per gli orecchini, le unghie rosee di buona salute, e un anello liscio alla mano sinistra. Siccome non sembrava avere più di vent'anni, mi consolai all'idea che non fosse un anello di nozze ma di un fidanzamento effimero. "Saper che dormi tu, quieta, sicura, alveo fedele di abbandono, linea pura, così vicina alle mie braccia strettamente avvinte", pensai, ripetendo sulla cresta di spume di champagne il sonetto magistrale di Gerardo Diego. Poi reclinai il sedile all'altezza del suo, e rimanemmo distesi più vicini che in un letto matrimoniale. Il ritmo del respiro era identico a quello della voce, e la pelle esalava un alito tenue che poteva essere solo l'odore della sua bellezza. Mi sembrava incredibile: la primavera precedente avevo letto un bel romanzo di Yasunari Kawabata sui vecchi borghesi di Kyoto che pagavano somme enormi per passare la notte contemplando le ragazze più belle della città, nude e narcotizzate, mentre loro agonizzavano d'amore nello stesso letto. Non potevano svegliarle, né toccarle, e neppure ci provavano, perché l'essenza del piacere consisteva nel guardarle dormire. Quella notte, vegliando il sonno della bella, non solo capii quella raffinatezza senile, ma la vissi pienamente. «Chi ci avrebbe creduto» mi dissi, con l'amor proprio esacerbato dallo champagne. «Io, che faccio il vecchio giapponese a questa altezza.» Credo di avere dormito diverse ore, sopraffatto dallo champagne e dalle vampate mute del film, e mi svegliai con la testa frastornata. Andai alla toilette. Due posti dietro il mio giaceva la vecchia delle undici valigie malamente abbandonata sul sedile. Sembrava un morto dimenticato sul campo di battaglia. A terra, in mezzo al corridoio, c'erano i suoi occhiali per leggere col filo di perline colorate, e per un istante godetti della gioia meschina di non raccoglierli. Dopo essermi ripreso dagli eccessi dello champagne mi sorpresi nello specchio, indecoroso e brutto, e mi stupii che fossero così terribili gli scempi dell'amore. D'improvviso, l'aereo cascò giù a picco, si raddrizzò alla meglio, e continuò a volare al galoppo. L'ordine di tornare al proprio posto si accese. Uscii di fretta, con l'illusione che le turbolenze di Dio svegliassero la bella, e che dovesse rifugiarsi fra le mie braccia in preda al terrore. Nell'urgenza per poco non calpestai gli occhiali dell'olandese, e me ne sarei rallegrato. Ma tornai sui miei passi, li raccolsi, e glieli posai in grembo, d'improvviso riconoscente che non avesse scelto prima di me il posto numero quattro. Il sonno della bella era invincibile. Quando l'aereo si fu stabilizzato, dovetti resistere alla tentazione di scuoterla con un pretesto qualsiasi, perché l'unica cosa che desideravo in quell'ultima ora di volo era vederla sveglia, sia pure infuriata, per poter recuperare la mia libertà, e forse la mia giovinezza. Ma non ne fui capace. «Cazzo» mi dissi, con grande spregio. «Perché non sono nato nel Toro!» Si svegliò senza aiuto nel momento in cui si accesero i segnali dell'atterraggio, ed era bella e riposata come se avesse dormito in un roseto. Solo allora mi accorsi che i vicini di posto sugli aerei, al pari dei vecchi coniugi, non si dicono buongiorno al risveglio. Neppure lei. Si tolse la mascherina, aprì gli occhi radiosi, raddrizzò il sedile, scostò la coperta, si scosse i capelli che si pettinavano da soli col loro peso, si rimise il cofanetto sulle ginocchia, e si fece un trucco rapido e superfluo, che le fu sufficiente per non guardarmi finché la porta non si aprì. Allora si infilò la giacca di lince, mi passò quasi addosso chiedendomi convenzionalmente scusa in uno spagnolo puro delle Americhe, e se ne ando senza neanche salutare, senza nemmeno ringraziarmi per tutto quello che avevo fatto per la nostra notte felice, e scomparve fino al sole di oggi nell'amazzonia di New York. giugno 1982. Mi offro per sognare. Alle nove del mattino, mentre facevamo colazione sulla terrazza dell'Habana Riviera, un tremendo colpo di mare in pieno sole sollevò in aria diverse automobili che passavano lungo il viale sul molo, o che erano parcheggiate sul marciapiede, e una rimase schiacciata contro un lato dell'albergo. Fu come un'esplosione di dinamite che seminò il panico nei venti piani dell'edificio e ridusse in polvere la vetrata dell'atrio. I numerosi turisti che si trovavano nella sala d'attesa furono lanciati in aria insieme ai mobili, e taluni rimasero feriti dalla grandinata di vetri. Fu di certo un colpo di mare colossale, perché fra il muro del molo e l'albergo c'è un ampio viale a due corsie, ma l'ondata vi balzò sopra ed ebbe ancora abbastanza forza per sbriciolare la vetrata. Gli allegri volontari cubani, con l'aiuto dei pompieri, raccolsero i detriti in meno di sei ore, sbarrarono la porta del mare e ne abilitarono un'altra, e tutto tornò in ordine. Alla mattina nessuno si era occupato dell'automobile schiacciata contro il muro, perché si pensava che fosse una di quelle parcheggiate sul marciapiede. Ma quando la gru l'ebbe tolta dalla nicchia vi scoprirono il cadavere di una donna stretta al posto di guida dalla cintura di sicurezza. L'urto era stato così brutale che non le era rimasto un solo osso intero. Aveva il viso spappolato, gli stivaletti scuciti e gli abiti stracciati, e un anello d'oro a forma di serpente con occhi di smeraldi. La polizia appurò che era la governante dei nuovi ambasciatori del Portogallo. Infatti, era giunta con loro all'Avana quindici giorni prima, e quella mattina si era avviata verso il mercato guidando un'automobile nuova. Il suo nome non mi disse nulla quando lessi la notizia sui giornali, ma rimasi intrigato per via dell'anello a forma di serpente e con occhi di smeraldi. Non riuscii a chiarire, tuttavia, a che dito lo portava. Era un elemento decisivo, perché temetti che fosse una donna indimenticabile il cui vero nome non ho mai saputo, la quale portava un anello uguale all'indice destro, il che era ancora più insolito in quel periodo. L'avevo conosciuta trentaquattro anni prima a Vienna, mentre mangiavo salsicce con patate lesse e bevevo birra alla spina in una taverna per studenti latini. Io ero arrivato da Roma quel mattino, e ricordo ancora la mia impressione immediata per il suo splendido petto da soprano, le sue languide code di volpe al collo del cappotto e quell'anello egiziano a forma di serpente. Mi sembrò che fosse l'unica austriaca al lungo tavolo di legno, per via dello spagnolo rudimentale che parlava senza respirare con un accento da paccottiglia. Ma no, era nata in Colombia ed era andata in Austria fra le due guerre, giovanissima, per studiare musica e canto. In quel periodo aveva una trentina d'anni portati male, perché non era sicuramente mai stata bella e aveva cominciato a invecchiare prima del tempo. Però era una creatura affascinante. E anche una delle più temibili. Vienna era ancora un'antica città imperiale, la cui posizione geografica fra i due mondi irriconciliabili lasciati dalla Seconda Guerra aveva finito per farne un paradiso del mercato nero e dello spionaggio mondiale. Non avrei potuto immaginare un ambiente più consono a quella compatriota in fuga che continuava a mangiare nella taverna per studenti lì all'angolo solo per fedeltà nei confronti della sua origine, perché non le mancavano i mezzi per comprarsela in contanti con tutti i suoi clienti dentro. Non disse mai il suo vero nome, perché la conoscemmo sempre con lo scioglilingua tedesco che le avevano inventato gli studenti latini di Vienna: Frau Frida. Me l'avevano appena presentata quando commisi l'infelice impertinenza di domandarle come aveva fatto a sistemarsi così in quel mondo tanto distante e diverso dalle rupi e dai venti del Quindío, e lei mi rispose con una botta: «Mi offro per sognare.» In realtà, era il suo unico mestiere. Era stata la terza degli undici figli di un prospero commerciante dell'antico Caldas, e fin da quando aveva imparato a parlare aveva imposto in casa la buona consuetudine di raccontare i sogni a digiuno, che è il momento in cui si mantengono più pure le loro virtù premonitrici. A sette anni aveva sognato che uno dei suoi fratelli veniva trascinato via da un torrente. La madre, per pura superstizione religiosa, aveva proibito al bambino quel che più gli piaceva, che era fare il bagno in fondo al dirupo. Ma Frau Frida aveva già un suo sistema di divinazione. «Il significato di questo sogno» disse «non è che annegherà, ma che non deve mangiare dolci.» La sola interpretazione sembrava un'infamia, trattandosi di un bambino di cinque anni che non poteva vivere senza le sue ghiottonerie domenicali. La madre, ormai convinta delle virtù divinatrici della figlia, fece rispettare l'avvertenza con mano rigida. Ma alla sua prima negligenza il bambino si strozzò con una caramella che stava mangiando di nascosto, e non fu possibile salvarlo. Frau Frida non aveva pensato che quella sua dote potesse essere un mestiere, finché la vita non la prese per il collo nei crudeli inverni di Vienna. Allora, in cerca di lavoro, bussò alla prima casa che le piacque per viverci, e quando le domandarono cosa sapeva fare, lei disse solo la verità: «Sogno». Le bastò una breve spiegazione alla padrona di casa per essere accolta, con lo stipendio appena sufficiente per le piccole spese, ma con una bella camera e i tre pasti. Soprattutto la colazione, che era il momento in cui la famiglia si sedeva per conoscere il destino immediato di ogni suo componente: il padre, che era un finanziere raffinato; la madre, una donna allegra e appassionata di musica da camera romantica, e due bambini di undici e nove anni. Tutti erano religiosi, e proprio per questo inclini alle superstizioni arcaiche, e accolsero felicissimi Frau Frida con l'unico incarico di decifrare il destino quotidiano della famiglia attraverso i sogni. Lo fece bene e per molto tempo, soprattutto negli anni della guerra, quando la realtà fu più sinistra degli incubi. Solo lei poteva decidere all'ora di colazione quanto ognuno doveva fare quel giorno, e come doveva farlo, finché i suoi pronostici non finirono per essere l'unica autorità nella casa. Il suo dominio sulla famiglia fu assoluto: anche il sospiro più lieve era per ordine suo. Nei giorni in cui io mi trovavo a Vienna era appena morto il padrone di casa, e aveva avuto l'eleganza di lasciare a lei una parte delle sue rendite, con l'unica condizione che continuasse a sognare per la famiglia sino alla fine dei suoi sogni. Rimasi a Vienna oltre un mese, condividendo le ristrettezze degli studenti, mentre aspettavo certo denaro che non arrivò mai. Le visite impreviste e generose di Frau Frida alla taverna erano allora come feste nel nostro regime di penurie. Una di quelle sere, nell'euforia della birra, mi parlò all'orecchio con una convinzione che non permetteva alcuna perdita di tempo. «Sono venuta solo per dirti che la notte scorsa ho fatto un sogno che ti riguarda» mi disse. «Devi andartene subito e non tornare a Vienna nei prossimi cinque anni.» La sua convinzione era così reale, che la sera stessa presi l'ultimo treno per Roma. Io, da parte mia, rimasi così colpito, che da allora in poi mi sono considerato un sopravvissuto a un disastro ignoto. Non ho ancora fatto ritorno a Vienna. Prima del disastro dell'Avana avevo visto Frau Frida a Barcellona, in modo così inatteso e casuale che mi era sembrato misterioso. Fu il giorno in cui Pablo Neruda mise piede per la prima volta in Spagna dopo la Guerra Civile, durante lo scalo di un lento viaggio per mare verso Valparaiso. Passò con noi una mattina di caccia grossa nelle librerie dell'usato, e da Porter comprò un libro antico, sfasciato e avvizzito, per il quale pagò quel che era stato il suo stipendio di due mesi al consolato di Rangoon. Si muoveva fra le gente come un elefante invalido, con un interesse infantile per il meccanismo interno di ogni cosa, perché il mondo gli sembrava un immenso giocattolo a molla con cui si inventava la vita. Non ho conosciuto nessuno più simile all'idea che si ha di un papa rinascimentale: goloso e raffinato. Anche contro la sua volontà, era sempre lui a presiedere la tavola. Matilde, sua moglie, gli metteva un bavagliolo che sembrava più da barbiere che per mangiare, ma era l'unico modo per impedirgli di sporcarsi di salsa. Quel giorno da Carvalleiras fu esemplare. Si mangiò tre piatti di aragoste intere squartandole con una perizia da chirurgo, e al contempo divorava con lo sguardo i piatti di tutti, e piluccava da ognuno, con un piacere che contagiava la voglia di mangiare: le telline di Galizia, le lepade del Cantabrico, gli scampi di Alicante, le "espardenyas" della Costa Brava. Nel frattempo, come i francesi, parlava solo di altre squisitezze culinarie, e in particolare dei frutti di mare preistorici del Cile che aveva dentro il cuore. D'improvviso smise di mangiare, affinò le sue antenne da lupicante, e mi disse a voce bassissima: «Dietro di me c'è qualcuno che non la smette di fissarmi.» Guardai da sopra la sua spalla, ed era proprio così. Dietro di lui, tre tavoli più in là, una donna impavida con un antiquato cappellino di feltro e una sciarpa viola, masticava piano tenendo gli occhi fissi su di lui. La riconobbi immediatamente. Era invecchiata e grassa, ma era lei, con l'anello a serpente all'indice. Viaggiava da Napoli sulla stessa nave dei Neruda, ma non si erano visti a bordo. La invitammo a prendere il caffè al nostro tavolo, e la incoraggiai a parlare dei suoi sogni per stupire il poeta. Lui non le badò, perché mise in chiaro fin dall'inizio che non credeva nella divinazione dei sogni. «Solo la poesia è chiaroveggente» disse. Dopo il pranzo, durante l'inevitabile passeggiata per le Ramblas, rimasi volutamente indietro con Frau Frida per rinfrescare i nostri ricordi senza orecchi estranei. Mi raccontò che aveva venduto le sue proprietà in Austria, e viveva ritirata a Oporto, in Portogallo, in una casa che descrisse come un finto castello sopra una collina da cui si vedeva tutto l'oceano fino alle Americhe. Pur senza dirlo, nella sua conversazione era chiaro che di sogno in sogno aveva finito per impadronirsi della fortuna dei suoi ineffabili padroni di Vienna. Non mi impressionò, tuttavia, perché avevo sempre pensato che i suoi sogni fossero solo un espediente per vivere. E glielo dissi. Lei se ne uscì nella sua risata irresistibile. «Sei sempre lo stesso screanzato» mi disse. E non disse altro, perché il resto del gruppo si era fermato ad aspettare che Neruda finisse di parlare in gergo cileno con i pappagalli della Rambla de los Pájaros. Quando riprendemmo la nostra chiacchierata, Frau Frida aveva cambiato argomento. «A proposito» mi disse, «ora puoi tornare a Vienna.» Solo allora mi resi conto che erano trascorsi tredici anni da quando ci eravamo conosciuti. «Anche se i tuoi sogni sono falsi, io non ci tornerò» le dissi. «Non si può mai sapere.» Alle tre ci separammo da lei per accompagnare Neruda a far la sua sacra siesta. La fece a casa nostra, dopo certi preparativi solenni che in qualche modo rammentavano la cerimonia del tè in Giappone. Bisognava aprire certe finestre e chiuderne certe altre affinché ci fosse il grado di caldo esatto e una certa sorta di luce in una certa direzione, e un silenzio assoluto. Neruda si addormentò subito, e si svegliò dieci minuti dopo, come i bambini, quando meno ce l'aspettavamo. Comparve in salotto rinvigorito e col monogramma del cuscino stampato su una guancia. «Ho sognato quella donna che sogna» disse. Matilde volle farsi raccontare il sogno. «Ho sognato che lei stava sognando di me» disse lui. «E' roba da Borges» gli dissi. Lui mi guardò disincantato. «E' già scritto?» «Se non è già scritto lo scriverà prima o poi» gli dissi. «Sarà uno dei suoi labirinti.» Non appena fu salito a bordo, alle sei del pomeriggio, Neruda si congedò da noi, si sedette a un tavolo discosto, e cominciò a scrivere versi fluidi con la penna a inchiostro verde con cui disegnava fiori e pesci e uccelli nelle dediche dei suoi libri. Al primo annuncio di partenza della nave cercammo Frau Frida, e infine la trovammo sul ponte della classe turistica quando già stavamo andandocene senza averla salutata. Anche lei si era appena svegliata dalla siesta. «Ho sognato il poeta» ci disse. Stupito, le chiesi di raccontarmi il sogno. «Ho sognato che stava sognando di me» disse, e la mia espressione esterrefatta la confuse. «Cosa vuoi? A volte, fra tanti sogni, se ne infila uno che non ha nulla a che fare con la vita reale.» Non la rividi né pensai a lei finché non venni a sapere dell'anello a forma di biscia della donna morta nel naufragio dell'Hotel Riviera. Sicché non resistetti alla tentazione di far domande all'ambasciatore portoghese quando ci incontrammo, qualche mese dopo, a un ricevimento diplomatico. L'ambasciatore mi parlò di lei con grande entusiasmo e un'enorme ammirazione. «Non può immaginare quanto fosse straordinaria» mi disse. «Non avrebbe resistito alla tentazione di scrivere un racconto su di lei.» E proseguì nello stesso tono, con dettagli stupefacenti, ma senza una pista che mi permettesse una conclusione decisiva. «In concreto» puntualizzai alla fine: «cosa faceva?». «Nulla» mi disse lui, con un certo disincanto. «Sognava.» marzo 1980. «Sono venuta solo per telefonare». In un pomeriggio di piogge primaverili, mentre viaggiava da sola verso Barcellona guidando un'automobile a nolo, María de la Luz Cervantes si ritrovò bloccata nel deserto dei Monegros. Era una messicana di ventisette anni, graziosa e seria, che anni prima aveva avuto una certa fama come attrice di varietà. Era sposata con un prestigiatore da salotto, che stava per raggiungere quel giorno, reduce da una visita a certi parenti di Saragozza. Dopo un'ora di segnali disperati alle automobili e ai camion da carico che passavano veloci nel temporale, il conducente di un autobus sconquassato ebbe pietà di lei. L'avvertì, comunque, che non andava molto lontano. «Non importa» disse María. «L'unica cosa di cui ho bisogno è un telefono.» Era vero, ne aveva bisogno solo per avvisare il marito che non sarebbe arrivata prima delle sette di sera. Sembrava un uccellino fradicio, con un soprabito da studente e i sandali da spiaggia in aprile, ed era così confusa per via del guasto che dimenticò di prendere le chiavi dell'automobile. Una donna che viaggiava accanto al conducente, dall'aspetto militare ma dai modi dolci, le diede un asciugamano e una coperta, e le fece posto vicino a sé. Dopo essersi asciugata un po', María si sedette, si avvolse nella coperta, e cercò di accendersi una sigaretta, ma i fiammiferi erano bagnati. La vicina di posto le offrì del fuoco e le chiese una delle poche sigarette che le rimanevano asciutte. Mentre fumavano, María cedette all'ansia di sfogarsi, e la sua voce riecheggiò più forte della pioggia e del tramestio dell'autobus. La donna la interruppe con l'indice sulle labbra. «Sono addormentate» mormorò. María guardò da sopra la spalla, e vide che l'autobus era occupato da donne di età incerte e di condizioni diverse, che dormivano avvolte in coperte uguali alla sua. Contagiata dalla loro quiete, María si rannicchiò sul sedile e si abbandonò al rumore della pioggia. Quando si svegliò era notte fonda e l'acquazzone si era dissolto in una pioviggine gelida. Non aveva la minima idea di quanto tempo avesse dormito né di dove si trovassero nel mondo. La sua vicina di posto stava all'erta. «Dove siamo?» le domandò María. «Siamo arrivate» rispose la donna. L'autobus stava entrando nel cortile acciottolato di un edificio enorme e cupo che sembrava un vecchio convento in un bosco di alberi colossali. Le passeggere, fiocamente illuminate da un lampione del cortile, rimasero immobili finché la donna dall'aspetto militare non le fece scendere con una serie di ordini elementari, come in un asilo infantile. Tutte erano anziane, e si muovevano con tale parsimonia nella penombra del cortile che sembravano figure di un sogno. María, l'ultima a scendere, pensò che fossero monache. Lo pensò di meno quando vide diverse donne in uniforme che le accoglievano all'uscita dall'autobus, e riparavano loro la testa con le coperte perché non si bagnassero, e le disponevano in fila indiana, guidandole senza parlare, con schiocchi di mano ritmici e perentori. Dopo avere salutato la sua vicina di posto María volle restituirle la coperta, ma lei le disse di ripararsi la testa per attraversare il cortile e di restituirla in portineria. «Ci sarà un telefono?» le domandò María. «Naturalmente» disse la donna. «Glielo indicheranno lì.» Chiese a María un'altra sigaretta, e lei le diede il resto del pacchetto bagnato. «Per strada si asciugheranno» le disse. La donna le fece un saluto con la mano stando sul predellino, e quasi le gridò: «Buona fortuna». L'autobus partì subito senza lasciarle altro tempo. María prese a correre verso l'entrata dell'edificio. Una guardiana cercò di fermarla con un energico schiocco di mani, ma dovette ricorrere a un grido imperioso: «Ferma, ho detto». María guardò da sotto la coperta, e vide un paio d'occhi di gelo e un indice inappellabile che le indicò la fila. Obbedì. Poi, nell'atrio dell'edificio, si separò dal gruppo e domandò al portinaio dove c'era un telefono. Una delle guardiane la fece tornare in fila con qualche pacca sulla schiena, mentre le diceva con modi dolcissimi: «Di qua, bella, di qua c'è un telefono.» María proseguì con le altre donne lungo un corridoio tenebroso, e infine entrò in un dormitorio dove le guardiane ritirarono le coperte e presero ad assegnare i letti. Una donna diversa, che a María sembrò più umana e gerarchicamente più in alto, percorse la fila confrontando una lista con i nomi che le donne appena arrivate avevano scritto su un cartoncino cucito alla blusa. Quando arrivò davanti a María si stupì che non avesse il suo segno di identificazione. «E' che io sono venuta solo per telefonare» le disse María. Le spiegò di gran fretta che la sua automobile aveva avuto un guasto lungo la strada. Il marito, che era un mago per feste private, stava aspettandola a Barcellona dove aveva tre impegni fino a mezzanotte, e voleva avvertirlo che non avrebbe fatto in tempo ad accompagnarlo. Erano quasi le sette. Lui sarebbe uscito di casa di lì a dieci minuti, e lei temeva che annullasse tutto per il suo ritardo. La guardiana sembrò ascoltarla con attenzione. «Come ti chiami?» María le disse il suo nome con un sospiro di sollievo, ma la donna non lo trovò dopo avere ricontrollato la lista più volte. Lo domandò allarmata a una guardiana, e questa, senza dire nulla, scrollò le spalle. «E' che io sono venuta solo per telefonare» disse María. «Certo, tesoro» le disse la direttrice, guidandola verso il suo letto con una dolcezza troppo ostentata per essere reale, «se ti comporti bene potrai telefonare a chi vorrai. Ma adesso no, domani.» Qualcosa accadde allora nella mente di María che le fece capire perché le donne dell'autobus si muovevano come in fondo a un acquario. In realtà, erano sotto l'effetto di tranquillanti, e quel palazzo in ombra, con grossi muri di pietra e scale gelide, era di fatto un ospedale per malate di mente. Spaventata, fuggì di corsa dal dormitorio, e prima di arrivare al portone una guardiana gigantesca in tuta da meccanico l'acchiappò con un'artigliata e la immobilizzò a terra con una presa magistrale. María la guardò di sbieco paralizzata dal terrore. «Per l'amor di Dio» disse. «Le giuro sulla buonanima di mia madre che io sono venuta solo per telefonare.» Le bastò vederle la faccia per sapere che non esisteva supplica possibile davanti a quell'energumena in tuta che chiamavano Herculina per la sua forza incredibile. Si occupava dei casi difficili, e due recluse erano morte strangolate dal suo braccio da orso polare addestrato nell'arte di ammazzare per negligenza. Il primo caso si era risolto come un incidente comprovato. Il secondo era stato meno chiaro, ed Herculina era stata ammonita e avvisata che la prossima volta si sarebbe inquisito a fondo su di lei. La versione corrente era che quella pecorella smarrita di una famiglia dal nome altisonante avesse una torbida carriera di incidenti sospetti in diversi manicomi della Spagna. La prima notte, affinché María si addormentasse, dovettero iniettarle un sonnifero. Prima dell'alba, quando la svegliò la voglia di fumare, era legata per i polsi e le caviglie alle sbarre del letto. Nessuno accorse alle sue grida. Al mattino, mentre a Barcellona il marito non scopriva alcuna sua traccia, dovettero portarla all'infermeria, perché l'avevano trovata priva di sensi nel pantano delle sue stesse miserie. Non seppe quanto tempo fosse trascorso allorché tornò in sé. Ma già il tempo era un ristagno d'amore, e davanti al suo letto c'era un vecchio monumentale, con un'andatura da plantigrado e un sorriso tranquillizzante, che con due gesti abili le restituì la gioia di vivere. Era il direttore dell'ospedale. Prima di dirgli alcunché, senza neppure salutarlo, María gli chiese una sigaretta. Lui gliela porse accesa, e le regalò il pacchetto quasi pieno. María non riusci a reprimere le lacrime. «Approfittane ora per piangere quanto vuoi» le disse il medico, con una voce ninnante. «Non c'è rimedio migliore delle lacrime.» María si sfogò senza pudore, come non era mai riuscita a fare con i suoi amanti casuali nel tedio del dopo l'amore. Mentre l'ascoltava, il medico la pettinava con le dita, le sistemava il guanciale affinché respirasse meglio, la guidava lungo il labirinto della sua indecisione con una saggezza e una dolcezza che lei non si era mai sognata. Era, per la prima volta nella sua vita, il miracolo di essere capita da un uomo che l'ascoltava con tutta l'anima senza aspettare la ricompensa di mettersi a letto con lei. Al termine di una lunga ora, sfogatasi a fondo, gli chiese l'autorizzazione di telefonare al marito. Il medico si raddrizzò con tutta la maestà del suo rango. «Non ancora, carissima» le disse, facendole sulla guancia il buffetto più tenero che mai le avessero fatto. «Ogni cosa a suo tempo.» Le diede una benedizione episcopale dalla soglia, e scomparve per sempre. «Abbi fiducia in me» le disse. Quello stesso pomeriggio María fu registrata all'ospedale con un numero di matricola, e con un commento superficiale sull'enigma della sua provenienza e i dubbi sulla sua identità. In margine c'era pure un'annotazione scritta di pugno dal direttore: "agitata". Come María aveva previsto, il marito uscì dal loro appartamento del quartiere di Horta con mezz'ora di ritardo per tenere fede ai suoi tre impegni. Era la prima volta che lei non arrivava per tempo in quasi due anni di un'unione libera ben concertata, e lui si spiegò il ritardo con la ferocia delle piogge che devastarono la provincia in quel finesettimana. Prima di uscire lasciò un messaggio attaccato alla porta con l'itinerario di quella sera. Alla prima festa, con tutti i bambini travestiti da canguri, eliminò il trucco spettacolare dei pesci invisibili perché non poteva farlo senza l'aiuto di lei. Il secondo impegno era a casa di una vecchia di novantatré anni, su seggiola a rotelle, che si vantava di avere festeggiato ognuno dei suoi ultimi trenta compleanni con un mago diverso. Lui era così contrariato dal ritardo di María, che non riuscì a concentrarsi nei giochi più semplici. Il terzo impegno era quello di ogni sera in un caffè-concerto delle Ramblas, dove si esibì senza ispirazione per un gruppo di turisti francesi che non credettero in quel che vedevano perché si rifiutavano di credere nella magia. Dopo ogni spettacolo telefonò a casa, e attese senza illusioni che María rispondesse. Alla fine non riuscì più a reprimere il presentimento che fosse successo qualcosa di brutto. Di ritorno a casa sul camioncino adattato per le rappresentazioni pubbliche vide lo splendore della primavera sulle palme del Paseo de Gracia, e rabbrividì al pensiero funesto di come avrebbe potuto essere la città senza María. L'ultima speranza svanì non appena trovò il suo messaggio ancora attaccato alla porta. Era così contrariato, che si dimenticò di dar da mangiare al gatto. Solo ora che lo scrivo mi rendo conto che non ho mai saputo come si chiamava in realtà, perché a Barcellona lo conoscevamo solo col suo nome di lavoro: Saturno il Mago. Era un uomo dal carattere strano e con una goffaggine sociale irrimediabile, ma il tatto e il garbo di cui scarseggiava abbondavano in María. Era lei a guidarlo per mano in questa comunità di grandi misteri, dove a nessuno sarebbe passato per la testa di telefonare a qualche conoscente dopo la mezzanotte per domandare della propria moglie. Saturno l'aveva fatto quando era arrivato da poco, e non voleva ricordarsene. Sicché quella notte si limitò a telefonare a Saragozza, dove una nonna semiaddormentata gli rispose senza inquietarsi che María era partita dopo il pranzo. Non dormì che un'ora all'alba. Fu un sonno pantanoso durante il quale vide María con un vestito da sposa a brandelli e spruzzato di sangue, e si svegliò con la certezza spaventosa che l'aveva di nuovo lasciato solo, e ora per sempre, nel vasto mondo senza di lei. L'aveva fatto tre volte con tre uomini diversi, lui incluso, negli ultimi cinque anni. L'aveva abbandonato a Città del Messico dopo sei mesi che si conoscevano, quando agonizzavano di felicità con un amore demente in una stanza di servizio di Colonia Anzures. Una mattina María non era più in casa dopo una notte di abusi inconfessabili. Aveva lasciato tutto quanto era suo, persino l'anello del matrimonio precedente, e una lettera in cui diceva che non era capace di sopravvivere al tormento di quell'amore folle. Saturno aveva pensato che fosse tornata dal primo marito, un compagno delle scuole medie con cui si era sposata di nascosto essendo ancora minorenne, e che aveva abbandonato per un altro dopo due anni senza amore. Ma no: era tornata a casa dei genitori, e lì Saturno era andato a cercarla a qualsiasi prezzo. L'aveva supplicata senza condizioni, le aveva promesso molto più di quanto fosse deciso a mantenere, ma si era scontrato con una risoluzione irremovibile. «Ci sono amori brevi e ci sono amori lunghi» gli aveva detto lei. E aveva concluso senza misericordia: «Questo è stato breve». Lui si era arreso davanti al suo rigore. Tuttavia, una mattina di Ognissanti, mentre se ne tornava nella sua camera di orfano dopo quasi un anno di oblio, l'aveva trovata che dormiva sul divano del salotto con la corona di zagare e il lungo strascico di crespo delle spose vergini. María gli aveva raccontato la verità. Il nuovo fidanzato, vedovo, senza figli, con la vita organizzata e il desiderio di sposarsi per sempre in chiesa, l'aveva lasciata vestita ad aspettarlo davanti all'altare. I suoi genitori avevano deciso di fare comunque la festa. Lei aveva assecondato il gioco. Aveva ballato, cantato con l'orchestra di "mariachis", bevuto a oltranza, e in un terribile stato di rimorsi tardivi a mezzanotte era andata a cercare Saturno. Non era in casa, ma aveva trovato le chiavi nel vaso di fiori del corridoio, dove le nascondevano sempre. Questa volta era stata lei ad arrendersi senza condizioni. «E adesso fin quando?» le aveva domandato lui. Lei gli aveva risposto con un verso di Vinicius de Moraes: «L'amore è eterno finché dura». Due anni dopo, era ancora eterno. María era sembrata maturare. Aveva rinunciato ai suoi sogni di fare l'attrice e si era dedicata a lui, nel lavoro e a letto. Alla fine dell'anno precedente avevano partecipato a un congresso di maghi a Perpignan, e di ritorno avevano conosciuto Barcellona. L'avevano amata tanto che da otto mesi stavano qui, e se la passavano così bene, che avevano comprato un appartamento nel catalanissimo quartiere di Horta, rumoroso e senza portinaio, ma con tutto lo spazio che volevano per cinque figli. Era stata la felicità possibile, sino al finesettimana in cui lei aveva noleggiato un'automobile e si era recata a visitare i suoi parenti di Saragozza con la promessa di tornare alle sette di sera del lunedì. All'alba del giovedì non aveva ancora dato segno di vita. Il lunedì della settimana successiva la compagnia di assicurazioni dell'automobile noleggiata telefonò a casa per domandare di María. «Non so nulla» disse Saturno. «Cercatela a Saragozza.» Riattaccò. Una settimana dopo un poliziotto si presentò con la notizia che avevano trovato l'automobile ridotta all'osso, in una scorciatoia vicino a Cadice, a novecento chilometri dal posto in cui María l'aveva abbandonata. L'agente voleva sapere se lei conosceva maggiori dettagli del furto. Saturno stava dando da mangiare al gatto, e lo guardò appena per dirgli senza tante perifrasi di non star lì a perdere tempo, perché sua moglie se n'era scappata di casa e lui non sapeva con chi né dove. Era tale la sua convinzione, che l'agente si sentì a disagio e gli chiese scusa per le sue domande. Il caso fu dichiarato chiuso. Il timore che María potesse di nuovo andarsene aveva assalito Saturno verso la Pasqua di Resurrezione a Cadaqués, dove Rosa Regás li aveva invitati sulla sua barca a vela. Eravamo al Marítim, l'affollato e sordido bar della "gauche divine" al crepuscolo del franchismo, intorno a uno di quei tavolini di ferro con seggiole di ferro dove potevamo stare a stento in sei e ci sedevamo in venti. Dopo avere finito il secondo pacchetto di sigarette della giornata, María si era ritrovata senza fiammiferi. Un braccio magro dai peli virili con un braccialetto di bronzo romano si era fatto strada nella ressa del tavolino, e le aveva offerto da accendere. Lei l'aveva ringraziato senza guardare chi fosse, ma Saturno il Mago l'aveva visto. Era un adolescente ossuto e glabro, con un pallore da morto e una coda di cavallo nerissima che gli arrivava fino alla vita. I vetri del bar faticavano a reggere la furia della tramontana di primavera, ma lui era vestito con una specie di pigiama da passeggio di cotone grezzo, e un paio di sandali da contadino. Non l'avevano rivisto sino alla fine dell'autunno, in una taverna di Barceloneta specializzata in frutti di mare, con lo stesso completo di telaccia e una lunga treccia invece della coda di cavallo. Li aveva salutati entrambi come vecchi amici, e dal modo in cui aveva baciato María, e dal modo in cui lei l'aveva contraccambiato, Saturno era stato fulminato dal sospetto che si fossero visti di nascosto. Qualche giorno dopo aveva trovato per caso un nome nuovo e un numero di telefono scritti da María sull'agenda di casa, e l'inclemente lucidità della gelosia gli aveva rivelato di chi fossero. La scheda sociale dell'intruso lo mise a tappeto: ventidue anni, figlio unico di genitori ricchi, vetrinista di negozi di moda con una fama facile di bisessuale e un prestigio ben fondato di consolatore a nolo di signore sposate. Ma era riuscito a dominarsi fino alla notte in cui María non era rincasata. Allora aveva cominciato a telefonargli tutti i giorni, dapprima ogni due o tre ore, dalle sei del mattino fino all'alba successiva, e poi ogni volta che trovava un telefono a portata di mano. Il fatto che nessuno rispondesse aumentava il suo martirio. Il quarto giorno gli aveva risposto un'andalusa che si trovava li solo per fare le pulizie. «Il signorino è partito» gli aveva detto, con una vaghezza sufficiente per farlo impazzire. Saturno non aveva resistito alla tentazione di domandarle se per caso lì non ci fosse la signorina María. «Qui non abita nessuna María» gli aveva risposto la donna. «Il signorino è scapolo.» «Questo lo so» le aveva detto lui. «Non ci abita, ma ogni tanto ci viene. O no?» La donna si era arrabbiata. «Ma chi cazzo sta parlando?» Saturno aveva riattaccato. La risposta negativa della donna gli era sembrata una nuova conferma di quel che per lui non era più un sospetto ma una certezza bruciante. Aveva perso il controllo. Nei giorni successivi aveva telefonato per ordine alfabetico a tutti i conoscenti di Barcellona. Nessuno gli aveva dato retta, ma ogni telefonata aveva acuito la sua sofferenza, perché i suoi deliri di gelosia erano ormai famosi in quel gruppo di nottambuli impenitenti della "gauche divine", e gli rispondevano con qualsiasi scherzo lo facesse soffrire. Solo allora aveva capito fino a che punto era solo in quella città bella, lunatica e impenetrabile, dove mai sarebbe stato felice. All'alba, dopo avere dato da mangiare al gatto, si era fatto forza per non morire, e aveva preso la decisione di dimenticare María. Di lì a due mesi, María non si era ancora abituata alla vita della casa di cura. Sopravviveva sbocconcellando appena il vitto del carcere con le posate fissate al tavolo di legno grezzo, e lo sguardo puntato sulla litografia del generale Francisco Franco che presiedeva la lugubre mensa medievale. All'inizio opponeva resistenza alle ore canoniche con la loro consueta serie sciapa di mattutini, laudi, vespri, e altri uffizi di chiesa che prendevano la maggior parte del tempo. Rifiutava di giocare a palla nel cortile della ricreazione, e di lavorare nel laboratorio dove un gruppo di recluse fabbricava fiori artificiali con una diligenza frenetica. Ma a partire dalla terza settimana a poco a poco si inserì nella vita del chiostro. In fin dei conti, dicevano i medici, tutte cominciavano così, e prima o poi finivano per integrarsi nella comunità. La mancanza di sigarette, risolta nei primi giorni da una guardiana che le vendeva a peso d'oro, riprese a tormentarla quando ebbe finito il poco denaro che aveva con sé. Si consolò poi con le sigarette di carta di giornale che talune recluse fabbricavano con i mozziconi raccolti nell'immondizia, perché l'ossessione di fumare era diventata violenta come quella del telefono. Lo scarso denaro che guadagnò in seguito fabbricando fiori artificiali le permise un sollievo effimero. La cosa più dura era la solitudine delle notti. Molte recluse rimanevano sveglie nella penombra, come lei, ma senza far nulla, perché anche la guardiana notturna vegliava davanti al portone chiuso con catenaccio e lucchetto. Una notte, comunque, oppressa dall'angoscia, María domandò con voce sufficiente per farsi udire dalla sua vicina di letto: «Dove siamo?» La voce grave e lucida della vicina le rispose: «Nei profondi inferni.» «Dicono che questa sia terra di mori» disse un'altra voce distante che risuonò nello spazio del dormitorio. «E deve esser vero, perché d'estate, quando c'è luna, si sentono i cani che abbaiano al mare.» Si udì il catenaccio nei suoi anelli come l'ancora di un galeone, e la porta si aprì. Il cerbero, unica creatura che sembrasse viva nel silenzio repentino, cominciò ad aggirarsi da un'estremità all'altra del dormitorio. María si rattrappì, e solo lei sapeva perché. Fin dalla sua prima settimana all'ospedale, la sorvegliante notturna le aveva proposto senza perifrasi di dormire con lei nella guardiola. Aveva iniziato con un tono da trattativa concreta: baratto d'amore per sigarette, cioccolatini, qualsiasi cosa. «Avrai tutto» le diceva, tremebonda. «Sarai la regina!» Dinanzi al rifiuto di María, la guardiana aveva mutato metodo. Le lasciava biglietti d'amore sotto il guanciale, nelle tasche della vestaglia, nei posti più impensati. Erano messaggi di un'urgenza straziante capace di impietosire le pietre. La notte in cui accadde l'incidente del dormitorio, era da oltre un mese che lei sembrava rassegnata alla sconfitta. Quando fu convinta che tutte le recluse dormivano, la guardiana si avvicinò al letto di María, e le mormorò all'orecchio ogni sorta di oscenità tenere, mentre le baciava il viso, il collo rigido di terrore, le braccia febbrili, le gambe spossate. Infine, forse credendo che la paralisi di María non fosse per paura ma per compiacenza, si azzardò a spingersi oltre. María le mollò allora un colpo col rovescio della mano che la spinse contro il letto vicino. La guardiana si raddrizzò furibonda in mezzo allo scandalo delle recluse in schiamazzo. «Figlia di puttana» gridò. «Marciremo insieme in questo porcile finché non sarai pazza di me.» L'estate arrivò senza preavviso la prima domenica di giugno, e si dovettero prendere misure di emergenza, perché durante la messa le recluse soffocate cominciavano a togliersi le palandrane di stamigna. María assistì divertita allo spettacolo delle malate nude che le guardiane rincorrevano per le navate come galline cieche. In mezzo alla confusione, cercò di proteggersi dai colpi a mansalva, e senza sapere come si ritrovò sola in un ufficio abbandonato, e con un telefono che squillava senza tregua con un suono supplichevole. María rispose senza pensarci, e udì una voce lontana e sorridente che si divertiva imitando il servizio telefonico dell'ora esatta: «Sono le ore quarantacinque, novantadue minuti e centosette secondi.» «Finocchio» disse María. Riattaccò divertita. E già se ne andava, quando si accorse che stava lasciandosi sfuggire un'occasione irripetibile. Allora compose un numero di sei cifre, con tanta tensione e tanta fretta, che non fu sicura che fosse il suo numero di casa. Attese col cuore impazzito, udì lo squillo familiare col suo tono avido e triste, una volta, due volte, tre volte, e udì infine la voce dell'uomo della sua vita nella casa senza di lei. «Pronto?» Dovette aspettare che passasse il groppo di lacrime che le si formò in gola. «Coniglietto, vita mia» sospirò. Le lacrime la sopraffecero. Dall'altra parte del filo ci fu un breve silenzio di terrore, e la voce accesa dalla gelosia sputò la parola: «Puttana!» E subito riappese. Quella sera, in una crisi di frenesia, María staccò dal refettorio la litografia del generalissimo, la scagliò con tutte le sue forze contro la vetrata del giardino, e crollò a terra bagnata di sangue. Ebbe ancora abbastanza ira per affrontare i guardiani che tentarono di piegarla, senza riuscirci, finché non vide Herculina dritta nel vano della porta, con le braccia conserte, che la guardava. Si arrese. Ciò malgrado, la trascinarono fino al padiglione delle pazze furiose, l'annicchilirono con un getto d'acqua gelida, e le iniettarono trementina nelle gambe. Incapace di camminare per l'infiammazione sopraggiunta, María si rese conto che non c'era nulla al mondo che non fosse in grado di fare pur di fuggire da quell'inferno. La settimana successiva, ormai tornata nel dormitorio, si alzò in punta di piedi e bussò alla cella della guardiana notturna. Il prezzo di María, da lei preteso in anticipo, fu di portare un messaggio a suo marito. La guardiana accettò, purché l'affare rimanesse nel più assoluto segreto. E le puntò contro un indice inesorabile. «Se si dovesse venire a sapere, ti ammazzo.» E così Saturno il Mago si recò all'ospedale delle pazze il sabato successivo, col camioncino da circo preparato per festeggiare il ritorno di María. Il direttore in persona lo ricevette nel suo ufficio, pulito e ordinato come una nave da guerra, e gli fece un resoconto affettuoso sulle condizioni di sua moglie. Nessuno sapeva da dove fosse arrivata, né come né quando, perché il primo dato sul suo ingresso era la registrazione ufficiale dettata da lui dopo averle parlato. Una ricerca avviata nello stesso giorno non aveva portato a nulla. Comunque, quel che più incuriosiva il dottore era come Saturno aveva saputo dove era finita sua moglie. Saturno protesse la guardiana. «Sono stato informato dalla compagnia di assicurazioni dell'automobile» disse. Il direttore annuì compiaciuto. «Non so come facciano le assicurazioni a sapere tutto» disse. Diede un'occhiata allo scartafaccio che aveva sulla scrivania da asceta, e concluse: «L'unica cosa sicura è la gravità delle sue condizioni.» Era disposto ad autorizzare una visita con le debite precauzioni se Saturno il Mago gli prometteva, per il bene della moglie, di attenersi al comportamento che lui gli avrebbe indicato. Soprattutto quanto al modo di trattarla, per evitare che ricadesse nelle sue crisi di ira sempre più frequenti e pericolose. «E' strano» disse Saturno. «E' sempre stata una testa matta, ma sapeva controllarsi.» Il medico fece un gesto da saggio. «Ci sono comportamenti che rimangono latenti per molti anni, e un bel giorno esplodono» disse. «Comunque, è una fortuna che sia finita qui, perché siamo specialisti in casi che richiedono una mano dura.» Infine lo avvertì della strana ossessione di María per il telefono. «La assecondi» disse. «Stia tranquillo, dottore» disse Saturno con un'aria allegra. «E' la mia specialità.» La sala per le visite, miscuglio di carcere e di confessionale, era l'antico parlatorio del convento. L'entrata di Saturno non fu l'esplosione di gioia che entrambi avrebbero potuto aspettarsi. María era in piedi in mezzo alla sala, accanto a un tavolino con due seggiole e un vaso da fiori senza fiori. Si vedeva che era pronta ad andarsene, col suo misero soprabito color fragola e certe scarpe sordide che le avevano dato per carità. In un angolo, quasi invisibile, c'era Herculina con le braccia conserte. María non si mosse quando vide entrare il marito né lasciò trasparire emozione alcuna sul viso ancora spruzzato dallo scempio della vetrata. Si diedero un bacio abitudinario. «Come stai?» le domandò lui. «Felice che tu sia finalmente arrivato, coniglietto» disse lei. «E' stato come morire.» Non ebbero il tempo di sedersi. Soffocata dalle lacrime, María gli raccontò le miserie del chiostro, la barbarie delle guardiane, il vitto da cani, le notti interminabili senza chiudere gli occhi per il terrore. «Non so più da quanti giorni sono qui, o mesi o anni, ma so che ognuno è stato peggiore dell'altro» disse, e sospirò con tutta l'anima. «Credo che non sarò più la stessa.» «Ora è passato tutto» disse lui, accarezzandole con la punta delle dita le cicatrici recenti sul viso. «Io continuerò a venire tutti i sabati. E anche di più, se il direttore me lo permette. Vedrai che tutto finirà benissimo.» Lei fissò gli occhi atterriti nei suoi occhi. Saturno tentò le sue arti da salotto. Le raccontò, col tono puerile delle grosse bugie, una versione edulcorata dei pronostici del medico. «In sintesi» concluse, «ti manca ancora qualche giorno per riprenderti completamente.» María capì la verità. «In nome di Dio, coniglietto!» disse, attonita. «Non crederai pure tu che io sono pazza!» «Ma cosa vai a pensare!» disse lui, cercando di ridere. «Il fatto è che sarà molto meglio per tutti se rimarrai qui ancora un po'. In condizioni migliori, naturalmente.» «Ma se ti ho già detto che ci sono venuta solo per telefonare!» ripeté Maria. Lui non seppe come reagire dinanzi a quell'ossessione temibile. Guardò Herculina. Questa ne approfittò per indicargli sul suo orologio da polso che era tempo di mettere fine alla visita. María colse il cenno, si guardò alle spalle, e vide Herculina nella tensione dell'assalto imminente. Allora si aggrappò al collo del marito gridando come una vera pazza. Lui se la tolse di dosso con tutto l'amore che gli fu possibile, e la lasciò alla mercé di Herculina, che con un balzo si fece avanti. Senza darle il tempo di reagire la serrò con la mano sinistra, le passò l'altro braccio di ferro intorno al collo, e gridò a Saturno il Mago: «Se ne vada!» Saturno fuggì via impaurito. Tuttavia, il sabato successivo, ormai ripreso dallo spavento della visita, tornò alla casa di cura col gatto vestito come lui: la maglia rossa e gialla del gran Léotard, la bombetta e un ampio mantello che sembrava servisse per volare. Entrò col camioncino da fiera fin nel cortile del chiostro, e lì si esibì in uno spettacolo prodigioso di quasi tre ore che le recluse si godettero dai balconi, con grida dissonanti e ovazioni inopportune. C'erano tutte, meno María, che non solo rifiutò di ricevere il marito, ma addirittura di vederlo dai balconi. Saturno si sentì ferito a morte. «E' una reazione tipica» lo consolò il direttore. «Passerà.» Ma non passò mai. Dopo avere tentato molte volte di rivedere María, Saturno fece l'impossibile perché accettasse una sua lettera, ma fu inutile. Quattro volte la restituì chiusa e senza commenti. Saturno si arrese, ma continuò a lasciare nella portineria dell'ospedale le razioni di sigarette, senza neppure sapere se arrivavano fino a María, finché non lo sopraffece la realtà. Non si seppe mai più nulla di lui, tranne che si risposò, e che fece ritorno al suo paese. Prima di andarsene da Barcellona lasciò il gatto mezzo morto di fame a una fidanzatina casuale, che si impegnò pure a portare sempre le sigarette a María. Ma anche lei sparì. Rosa Regás ricordava di averla vista ai grandi magazzini del Corte Inglés dodici anni fa, con la testa rapata e la palandrana arancione di una setta orientale, e vistosamente incinta. Lei le raccontò che aveva continuato a portare le sigarette a María, ogni volta che aveva potuto, e a risolverle alcuni bisogni imprevisti, fino al giorno in cui si era ritrovata davanti le macerie dell'ospedale, demolito come un brutto ricordo di quei tempi ingrati. María le era sembrata lucidissima l'ultima volta che l'aveva vista, un po' in sovrappeso e contenta della pace del chiostro. Quel giorno le aveva portato anche il gatto perché ormai erano finiti i soldi che Saturno le aveva lasciato per dargli da mangiare. aprile 1978. Spaventi di agosto. Arrivammo ad Arezzo un po' prima di mezzogiorno, e impiegammo più di due ore cercando il castello rinascimentale che lo scrittore venezuelano Miguel Otero Silva aveva comprato in quell'angolo idilliaco della campagna toscana. Era una domenica all'inizio di agosto, ardente e chiassosa, e non era facile trovare una persona che sapesse qualcosa nelle vie accalcate di turisti. Dopo molti tentativi inutili tornammo all'automobile, abbandonammo la città lungo un sentiero di cipressi senza indicazioni stradali, e una vecchia pastora di oche ci indicò con precisione dove si trovava il castello. Prima di salutarci domandò se pensavamo di pernottare lì, e le rispondemmo, come già avevamo previsto, che vi avremmo solo pranzato. «Meno male» disse lei «perché in quel posto c'e da spaventarsi.» Mia moglie e io, che non crediamo nei fantasmi a mezzogiorno, ci burlammo della sua credulità. Ma i nostri due figli, di nove e sette anni, furono felici all'idea di conoscere un fantasma in carne e ossa. Miguel Otero Silva, che oltre a essere un buon scrittore era un anfitrione splendido e un mangiatore raffinato, ci aspettava con un pranzo impossibile da dimenticare. Siccome eravamo in ritardo non si ebbe il tempo di conoscere l'interno del castello prima di sederci a tavola, ma il suo aspetto da fuori non aveva nulla di spaventoso, e qualsiasi inquietudine svaniva davanti al panorama della città dalla terrazza fiorita in cui stavamo pranzando. Era difficile credere che in quella collina di case aggrappolate, dove c'era posto appena per novantamila persone, fossero nati tanti uomini di genio duraturo. Tuttavia, Miguel Otero Silva ci disse col suo umorismo caraibico che nessuno di quegli innumerevoli era il più insigne di Arezzo. «Il più grande» sentenziò «è stato Ludovico.» Così, senza cognome: Ludovico, il grande signore delle arti e della guerra, che aveva costruito quel castello della sua sventura, e di cui Miguel ci parlò durante tutto il pranzo. Ci parlò del suo potere immenso, del suo amore contrastato e della sua morte terribile. Ci raccontò come in un momento di follia del cuore avesse pugnalato la sua dama nel letto in cui si erano appena amati, e poi si fosse sguinzagliato contro i suoi feroci cani da guerra che a morsi l'avevano fatto a pezzi. Ci assicurò, in tutta serietà, che a partire da mezzanotte lo spettro di Ludovico si aggirava per la casa nelle tenebre cercando di raggiungere la quiete nel suo purgatorio d'amore. Il castello, in realtà, era immenso e cupo. Ma in pieno giorno, con lo stomaco pieno e il cuore allegro, il racconto di Miguel poteva solo sembrare uno scherzo come tanti altri dei suoi per divertire gli invitati. Le ottantadue stanze che attraversammo senza paure dopo la siesta, avevano subito ogni sorta di modificazioni da parte dei successivi proprietari. Miguel aveva restaurato completamente il pianterreno e si era fatto costruire una camera da letto moderna con pavimento di marmo e impianti per la sauna e la ginnastica, e il terrazzo di fiori intensi dove avevamo pranzato. Il secondo piano, che era stato il più usato nel corso dei secoli, era una sequela di stanze prive di carattere, con mobili di diverse epoche abbandonati alla loro sorte. Ma all'ultimo c'era ancora una stanza intatta dove il tempo si era dimenticato di trascorrere. Era la camera da letto di Ludovico. Fu un istante magico. C'erano l'alcova con le tende ricamate a fili d'oro, e il copriletto con prodigi di passamaneria ancora accartocciato dal sangue secco dell'amante sacrificata. C'erano il camino con le ceneri gelide e l'ultimo ciocco di legno tramutato in pietra, l'armadio con le sue armi ben lustrate, e il ritratto a olio del cavaliere pensoso in una cornice d'oro, dipinto da un qualche maestro fiorentino che non aveva avuto la fortuna di sopravvivere al suo tempo. Tuttavia, quel che più mi impressionò fu l'odore di fragole fresche che stagnava senza spiegazione possibile nell'aria della camera da letto. Le giornate dell'estate sono lunghe e parsimoniose in Toscana, e l'orizzonte rimane immobile fino alle nove di sera. Quando si ebbe finito di visitare il castello erano passate le cinque, ma Miguel insistette per portarci a vedere gli affreschi di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco, poi prendemmo un caffè chiacchierando sotto i pergolati della piazza, e quando tornammo a ritirare i bagagli trovammo la cena servita. Sicché ci fermammo a cenare. Mentre così facevamo, sotto un cielo malva con una sola stella, i bambini accesero alcune torce in cucina, e andarono a esplorare le tenebre ai piani superiori. Dalla tavola sentivamo le loro corse di cavalli selvaggi per le scale, i lamenti delle porte, le grida felici che chiamavano Ludovico nelle stanze tenebrose. Fu a loro che venne la brutta idea di restar lì a dormire. Miguel Otero Silva li spalleggiò tutto contento, e a noi mancò il coraggio civile di rifiutare. Contrariamente a quanto temevo, dormimmo benissimo, mia moglie e io in una stanza al pianterreno e i miei figli nella camera attigua. Entrambe erano state modernizzate e non avevano nulla di tenebroso. Mentre cercavo di prendere sonno contai i dodici rintocchi vigili dell'orologio a pendolo del salone, e mi ricordai dell'avviso impaurito della pastora di oche. Ma eravamo così stanchi che ci addormentammo in fretta, in un sonno denso e continuo, e mi svegliai dopo le sette con un sole splendido fra i rampicanti della finestra. Accanto a me, mia moglie navigava nel mare quieto degli innocenti. «Che stupidaggine» mi dissi, «che la gente continui a credere nei fantasmi in quest'epoca.» Solo allora mi fece rabbrividire l'odore di fragole fresche, e vidi il caminetto con le ceneri fredde e l'ultimo ciocco tramutato in pietra, e il ritratto del cavaliere triste che ci guardava da tre secoli addietro nella cornice d'oro. Perché non ci trovavamo nell'alcova al pianterreno dove ci eravamo addormentati la notte prima, ma nella camera di Ludovico, sotto il baldacchino e le tende polverose e le lenzuola fradicie di sangue ancora caldo del suo letto di maledizione. ottobre 1980. Maria dos Prazeres. L'uomo delle pompe funebri arrivo così puntuale, che Maria dos Prazeres era ancora in vestaglia e con la testa piena di bigodini, ed ebbe appena il tempo di infilarsi una rosa rossa dietro l'orecchio per non sembrare indesiderabile come si sentiva. Si dispiacque ancor più delle sue condizioni quando aprì la porta e vide che non era un notaio lugubre, come lei pensava dovessero essere i commercianti della morte, ma un giovanotto timido con una giacca a quadri e una cravatta con uccelli colorati. Non portava soprabito, malgrado la primavera incerta di Barcellona, la cui pioviggine di venti sbiechi la rendeva quasi sempre meno tollerabile dell'inverno. Maria dos Prazeres, che aveva accolto tanti uomini a ogni ora, si sentì imbarazzata come pochissime altre volte. Aveva appena compiuto settantasei anni ed era convinta che sarebbe morta prima di Natale, e anche così fu sul punto di chiudere la porta e chiedere al venditore di sepolture che aspettasse un momento mentre si vestiva per accoglierlo come si meritava. Ma poi pensò che si sarebbe gelato lì sul pianerottolo buio, e lo fece accomodare. «Mi scusi per questo aspetto da pipistrello» disse, «ma vivo da oltre cinquant'anni in Catalogna, ed è la prima volta che una persona arriva all'ora convenuta.» Parlava un catalano perfetto con una purezza un po' arcaica, sebbene si notasse ancora la musica del suo portoghese dimenticato. Malgrado gli anni e con i riccioli di fil di ferro era sempre una mulatta snella e vivace, dai capelli duri e dagli occhi gialli e feroci, e ormai da molto tempo aveva perso la compassione per gli uomini. Il venditore, ancora abbagliato dalla luce della via, non fece alcun commento ma si pulì la suola delle scarpe sullo stuoino di iuta e le baciò la mano con una riverenza. «Sei un uomo come quelli dei miei tempi» disse Maria dos Prazeres con una sghignazzata di grandine. «Accomodati.» Pur essendo nuovo del mestiere, lui lo conosceva abbastanza bene da non aspettarsi quell'accoglienza festosa alle otto del mattino, e tanto meno da parte di una vecchia senza misericordia che a prima vista gli sembrò una pazza scappata dalle Americhe. Sicché rimase a un passo dalla porta senza sapere cosa dire, mentre Maria dos Prazeres scostava le pesanti tende di felpa alle finestre. La tenue luce di aprile illuminò appena lo spazio meticoloso del salotto che sembrava piuttosto la bottega di un antiquario. Erano cose di uso quotidiano, né una di più né una di meno, e ognuna sembrava messa al suo posto naturale, e con un gusto così sicuro che sarebbe stato difficile trovare un'altra casa meglio arredata persino in una città antica e segreta come Barcellona. «Mi scusi» disse. «Ho sbagliato porta.» «Così fosse» disse lei, «ma la morte non si sbaglia.» Il venditore aprì sulla tavola della sala da pranzo un grafico dalle molte piegature come una carta marittima con pezzi di colori diversi e numerose croci e cifre di tutti i colori. Maria dos Prazeres capì che era la mappa completa dell'immenso cimitero di Montjuich, e ricordò con un orrore antichissimo il camposanto di Manaus sotto gli acquazzoni di ottobre, dove sguazzavano i tapiri fra tombe senza nome e mausolei di avventurieri con vetrate fiorentine. Una mattina, quando era molto piccola, il Rio delle Amazzoni in piena era apparso trasformato in una palude nauseabonda, e lei aveva visto le bare rotte che galleggiavano nel cortile di casa sua con pezzi di stracci e capelli di morti nelle fessure. Quel ricordo era il motivo che l'aveva indotta a scegliere la collina di Montjuich per riposare in pace, e non il piccolo cimitero di San Gervasio, così vicino e familiare. «Voglio un posto dove l'acqua non possa mai arrivare» disse. «Eccolo qui» disse il venditore, indicando il luogo sulla mappa con una bacchetta allungabile che portava in tasca come una stilografica di acciaio. «Nessun mare può salire tanto.» Lei si orientò sulla scacchiera colorata fino a rintracciare l'accesso principale, dove si trovavano le tre tombe attigue, identiche e senza nome, nelle quali giacevano Buenaventura Durruti e altri due dirigenti anarchici morti nella Guerra Civile. Ogni notte qualcuno scriveva i nomi sulle lapidi in bianco. Li scrivevano con lapis, con pittura, con carbone, con matita per gli occhi o smalto per le unghie, con tutte le lettere e nel giusto ordine, e ogni mattina i guardiani li cancellavano affinché nessuno sapesse chi c'era sotto i marmi nudi. Maria dos Prazeres aveva assistito alla sepoltura di Durruti, la più triste e tumultuosa fra quante ci fossero mai state a Barcellona, e voleva riposare vicino alla sua tomba. Ma non ce n'erano di disponibili nel vasto cimitero sovraffollato. Sicché si rassegnò a quel che era possibile scegliere. «A patto» disse «che non mi mettano in uno di quei loculi a cinque anni dove si sta come alla posta.» Poi, ricordando d'improvviso il requisito essenziale, concluse: «E soprattutto, che mi seppelliscano coricata.» Infatti, in risposta alla chiassosa promozione di tombe vendute in anticipo, circolava la voce che si stavano facendo sepolture verticali per risparmiare spazio. Il venditore spiegò, con la precisione di un discorso imparato a memoria, e spesso ripetuto, che quella diceria era una frottola perversa delle imprese di pompe funebri tradizionali per screditare la nuova promozione delle tombe a rate. Mentre lo spiegava bussarono alla porta con tre colpetti discreti, e lui fece una pausa incerta, ma Maria dos Prazeres gli fece segno di proseguire. «Non si preoccupi» disse a voce bassissima. «E' il Noi.» Il venditore riprese il filo, e Maria dos Prazeres fu soddisfatta della spiegazione. Tuttavia, prima di aprire la porta volle fare una sintesi conclusiva di un pensiero che era maturato nel suo cuore da molti anni, e persino nei suoi dettagli più intimi, dopo la leggendaria piena di Manaus. «Quel che intendo» disse «è che cerco un posto dove possa star coricata sotto terra, senza rischi di inondazioni e se è possibile all'ombra degli alberi d'estate, e da dove non mi tirino fuori dopo qualche tempo per buttarmi nella spazzatura.» Aprì la porta di ingresso ed entrò un barboncino fradicio di pioviggine, e con un aspetto da manigoldo che nulla aveva a che vedere col resto della casa. Tornava dalla passeggiata mattutina nel vicinato, ed entrando ebbe un impeto di giubilo. Saltò sulla tavola abbaiando insensatamente e fu sul punto di rovinare la mappa del cimitero con le zampe sporche di fango. Un solo sguardo della padrona bastò a moderare i suoi slanci. «Noi!» gli disse senza gridare. «"Baixa d'açi"!» L'animale si contrasse, la guardò spaventato, e un paio di lacrime nette gli scivolarono giù per il muso. Allora Maria dos Prazeres tornò a occuparsi del venditore, e lo vide perplesso. «"Collons"!» esclamò lui. «Ha pianto!» «E' così agitato perché c'è qualcuno qui a quest'ora» lo scusò Maria dos Prazeres a bassa voce. «In genere, entra in casa con più garbo degli uomini. Tranne te, come ho potuto vedere.» «Ma ha pianto, cazzo!» ripeté il venditore, e subito si rese conto della sua grossolanità, e si scusò arrossendo: «Mi perdoni, ma una cosa del genere non l'avevo mai vista neppure al cinema». «Tutti i cani possono farlo se glielo si insegna» disse lei. «Il fatto è che i padroni passano la vita a educarli con abitudini che li fanno soffrire, come mangiare nei piatti o fare i loro bisogni a certe ore e sempre nello stesso posto. E invece non gli insegnano le cose naturali che a loro piacciono, come ridere e piangere. Dove eravamo?» Mancava molto poco. Maria dos Prazeres dovette rassegnarsi anche alle estati senza alberi, perché gli unici che c'erano nel cimitero avevano l'ombra riservata ai gerarchi del regime. Invece le condizioni e le clausole del contratto erano superflue, perché lei voleva godere dello sconto relativo al pagamento immediato e in contanti. Solo quando ebbero finito, e mentre riponeva i fogli nella cartella, il venditore esaminò la casa con uno sguardo consapevole e rabbrividì al respiro magico della sua bellezza. Guardò di nuovo Maria dos Prazeres come per la prima volta. «Posso farle una domanda indiscreta?» domandò lui. Lei lo guidò verso la porta. «Naturalmente» gli disse, «purché non mi domandi l'età.» «Ho la mania di indovinare il mestiere delle persone dalle cose che ci sono a casa loro, pero qui non ci riesco» disse lui. «Lei cosa fa?» Maria dos Prazeres gli rispose morta dal ridere: «Faccio la puttana, giovanotto. O non lo si nota più?» Il venditore arrossì. «Mi dispiace.» «Semmai doveva dispiacere a me» disse lei, prendendolo per un braccio e così impedendo che sbattesse contro la porta. «E sta' attento! Non romperti la zucca prima di avermi seppellita per bene.» Non appena ebbe chiuso la porta, prese il cagnolino e si mise a vezzeggiarlo, e si unì con la sua bella voce africana ai cori infantili che in quel momento si cominciarono a udire nell'asilo accanto. Tre mesi prima aveva avuto in sogno la rivelazione che stava per morire, e da allora si era sentita più legata che mai a quella creatura della sua solitudine. Aveva previsto con tanta cura la spartizione postuma delle sue cose e il destino del suo corpo, che in quel momento avrebbe potuto morire senza disturbare nessuno. Si era ritirata di sua volontà con una fortuna accumulata pietra su pietra ma senza sacrifici troppo amari, e aveva scelto come ultimo rifugio l'antichissimo e nobilissimo paese di Gracia, ormai digerito dall'espansione della città. Aveva comprato quell'ammezzato in rovina, sempre odoroso di aringhe affumicate, le cui pareti corrose dal salnitro conservavano ancora i segni di qualche combattimento senza gloria. Non c'era portinaio, e alle scale umide e tenebrose mancavano alcuni gradini, sebbene tutti gli appartamenti fossero occupati. Maria dos Prazeres aveva fatto risistemare il bagno e la cucina, tappezzare le pareti con stoffe dai colori allegri e mettere vetri ugnati e tende di velluto alle finestre. Infine aveva portato i mobili più belli, le suppellettili di servizio e di ornamento e i bauli di sete e broccati che i fascisti predavano dalle dimore abbandonate dai repubblicani nel panico della disfatta, e che lei aveva comprato a poco a poco, per molti anni, a prezzi d'occasione e in aste segrete. L'unico vincolo che le era rimasto col passato era la sua amicizia col conte di Cardona, che aveva continuato a visitarla l'ultimo venerdì di ogni mese per cenare con lei e poi fare un languido amore da dopocena. Ma pure quell'amicizia della gioventù era rimasta avvolta da discrezione, perché il conte lasciava l'automobile con i suoi stemmi araldici a una distanza più che prudente, e raggiungeva l'ammezzato camminando nell'ombra, per proteggere l'onore di lei come il proprio. Maria dos Prazeres non conosceva nessuno nell'edificio, tranne quelli della porta di fronte, dove abitava da poco una coppia molto giovane con una bambina di nove anni. Le sembrava incredibile, ma era vero, di non essersi mai imbattuta in chicchessia per le scale. Tuttavia, la spartizione della sua eredità le dimostrò che si trovava più inserita di quanto lei stessa credesse in quella comunità di catalani chiusi il cui onore nazionale si basava sul pudore. Aveva spartito persino le carabattole più insignificanti fra le persone che più stavano vicine al suo cuore, che poi erano quelle che più stavano vicine a casa sua. Alla fine non si sentiva molto sicura di essere stata giusta, ma era invece certa di non avere dimenticato nessuno che non se lo meritasse. Fu un testamento preparato con tanto rigore che il notaio di Calle del Arbol, che si vantava di averne viste di tutti i colori, non riuscì a credere ai suoi occhi quando la vide dettare a memoria ai suoi amanuensi la lista minuziosa dei suoi beni, col nome preciso di ogni cosa in quel catalano medievale, e la lista completa degli eredi con i loro mestieri e indirizzi e il posto che occupavano nel suo cuore. Dopo la visita del venditore di sepolture finì per trasformarsi in uno dei numerosi visitatori domenicali del cimitero. Al pari dei suoi vicini di tomba seminò fiori di quattro stagioni nei vasi, innaffiava l'erba novella e la pareggiava con le forbici per potare fino a lasciarla come i tappeti del municipio, e si familiarizzò tanto col posto che finì per non capire come all'inizio avesse potuto sembrarle così desolato. Durante la sua prima visita, il cuore le era sobbalzato vedendo accanto all'ingresso le tre tombe senza nome, ma non si era neppure fermata a guardarle, perché a pochi passi da lei c'era il guardiano insonne. Ma la terza domenica approfittò di una sua distrazione per concretizzare uno dei suoi sogni più grandi, e col rossetto scrisse sulla prima lapide lavata dalla pioggia: Durruti. In seguito, ogni volta che le fu possibile lo rifece, talvolta su una tomba, su due o su tutt'e tre, e sempre col polso fermo e il cuore eccitato dalla nostalgia. Una domenica di fine settembre assistette alla prima sepoltura sulla collina. Tre settimane dopo, in un pomeriggio di venti gelidi, seppellirono una giovane sposata da poco nella tomba vicino alla sua. Alla fine dell'anno, sette appezzamenti erano occupati, ma l'inverno effimero trascorse senza turbarla. Non sentiva alcun malessere, e a mano a mano che aumentava il caldo ed entrava il rumore torrenziale della vita attraverso le finestre aperte si sentiva sempre più in forze per sopravvivere agli enigmi dei suoi sogni. Il conte di Cardona, che passava in montagna i mesi più caldi, la trovò al ritorno più attraente ancora che nella sua straordinaria gioventù dei cinquant'anni. Dopo molti tentativi frustrati, Maria dos Prazeres ottenne che il Noi distinguesse la sua tomba nell'ampia collina di tombe tutte uguali. Poi si adoperò a insegnargli a piangere sopra la sepoltura vuota affinché continuasse a farlo per abitudine dopo la sua morte. Lo portò più volte a piedi da casa fino al cimitero, indicandogli punti di riferimento per fargli memorizzare il percorso dell'autobus delle Ramblas, finché non lo sentì abbastanza addestrato per mandarlo da solo. La domenica della prova finale, alle tre del pomeriggio, gli tolse il cappottino primaverile, in parte perché l'estate era imminente e in parte perché attirasse meno l'attenzione, e lo lasciò fare. Lo vide allontanarsi lungo il marciapiede in ombra con un trotto lieve e il culetto magro e triste sotto la coda agitata, e riuscì a stento a reprimere la voglia di piangere, per lei e per lui, e per tanti e tanto amari anni di illusioni comuni, finché non lo vide svoltare verso il mare all'angolo di Calle Mayor. Quindici minuti dopo lei salì sull'autobus delle Ramblas nella vicina Plaza de Lesseps, tentando di vederlo senza essere vista dal finestrino e infatti lo vide tra le frotte di bambini domenicali, lontano e serio, in attesa che scattasse il semaforo del Paseo de Gracia. «Dio mio» sospirò. «Com'è solo!» Dovette aspettarlo quasi due ore sotto il sole brutale di Montjuich. Salutò diverse persone afflitte di altre domeniche meno memorabili, pur riconoscendole appena, perché era trascorso così tanto tempo da quando le aveva viste per la prima volta che ormai non indossavano più abiti da lutto, né piangevano, e disponevano i fiori sulle tombe senza pensare ai loro morti. Di lì a poco, quando tutti se ne furono andati via, udì un bramito lugubre che spaventò i gabbiani, e vide sul mare immenso un transatlantico bianco con la bandiera del Brasile, e si augurò con tutta l'anima che le portasse una lettera di qualcuno che fosse morto per lei nel carcere di Pernambuco. Poco dopo le cinque, con dodici minuti di anticipo, comparve il Noi sulla collina, sbavando per la fatica e il caldo, ma con un'aria da bambino trionfante. In quell'istante, Maria dos Prazeres superò il terrore di non avere chi piangesse sulla sua tomba. Fu nell'autunno successivo che comincio a notare segni funesti che non riusciva a decifrare, ma che le accrebbero il peso del cuore. Ricominciò a prendere il caffè sotto le acacie dorate di Plaza del Reloj col cappotto dal collo di code di volpi e il cappellino ornato di fiori finti, così antico che era tornato di moda. Acuì l'istinto. Cercando di spiegarsi la propria ansia spiò le chiacchiere delle venditrici di uccelli delle Ramblas, i sussurri degli uomini davanti alle bancarelle di libri che per la prima volta dopo molti anni non parlavano di calcio, i profondi silenzi dei mutilati di guerra che spargevano briciole di pane alle colombe, e ovunque trovò segni inequivocabili della morte. A Natale si accesero le luci colorate fra le acacie, e uscivano musiche e voci di giubilo dai balconi, e una folla di turisti estranei al nostro destino invase i caffè all'aperto, ma anche dentro la festa si sentiva la stessa tensione repressa che aveva preceduto i tempi in cui gli anarchici si erano impadroniti delle vie. Maria dos Prazeres, che aveva vissuto quell'epoca di grandi passioni, non riusciva a dominare l'inquietudine, e per la prima volta fu svegliata nel bel mezzo del sonno da artigliate di paura. Una notte, agenti di Sicurezza dello Stato assassinarono a colpi di pistola davanti alla sua finestra uno studente che aveva scritto con un grosso pennello sul muro: "Visca Catalunya lliure". «Dio mio» si disse spaventata, «è come se tutto stesse morendo con me!» Aveva provato un'ansia simile solo da molto piccola a Manaus, un minuto prima dell'alba, quando i rumori numerosi della notte cessavano d'improvviso, le acque si fermavano, il tempo titubava, e la foresta amazzonica sprofondava in un silenzio abissale che poteva essere uguale solo a quello della morte. In mezzo alla tensione irresistibile, l'ultimo venerdì di aprile, come sempre, il conte di Cardona si recò a cena a casa sua. La visita era diventata un rito. Il conte arrivava puntuale fra le sette e le nove di sera con una bottiglia di champagne del paese avvolta nel giornale del pomeriggio affinché la si notasse di meno, e una scatola di tartufi farciti. Maria dos Prazeres gli preparava cannelloni gratinati e un pollo tenero nel suo sugo, che erano i piatti preferiti dei catalani di rango dei suoi bei tempi, e un vassoio assortito di frutta di stagione. Mentre lei cucinava, il conte ascoltava sul grammofono frammenti di opere italiane in versioni storiche, bevendo a sorsi lenti un bicchierino di porto che gli durava sino alla fine dei dischi. Dopo la cena, lunga e ben inframmezzata da chiacchiere, facevano a memoria un amore sedentario che lasciava a entrambi un residuo di disastro. Prima di andarsene, sempre impaurito dall'imminenza della mezzanotte, il conte depositava venticinque pesetas sotto il portacenere della camera da letto. Era il prezzo di Maria dos Prazeres quando l'aveva conosciuta in un albergo a ore del Paralelo, ed era l'unica cosa che la ruggine del tempo avesse lasciato intatta. Nessuno dei due si era mai domandato su cosa si basasse quell'amicizia. Maria dos Prazeres gli era debitrice di certi favori facili. Lui le dava consigli opportuni per il buon uso dei suoi risparmi, le aveva insegnato a discernere il valore reale delle sue reliquie, e il modo per conservarle senza che si scoprisse che erano cose rubate. Ma soprattutto, era stato lui a indicarle la via di una vecchiaia onesta nel quartiere di Gracia, quando nel suo bordello di tutta la vita l'avevano dichiarata troppo frusta per i gusti moderni, e avevano voluto mandarla in una casa di pensionate clandestine che per cinque pesetas insegnavano ai bambini a far l'amore. Lei, a sua volta, aveva raccontato al conte che sua madre l'aveva venduta a quattordici anni nel porto di Manaus, e che il primo ufficiale di una nave turca l'aveva posseduta senza pietà durante la traversata dell'Atlantico, e poi l'aveva abbandonata senza soldi, senza lingua e senza nome, nella palude di luci del Paralelo. Entrambi erano consapevoli di avere così poche cose in comune che mai si sentivano soli come quando stavano insieme, ma nessuno dei due aveva osato sciupare il fascino dell'abitudine. Ebbero bisogno di un'emozione nazionale per rendersi conto, entrambi al contempo, di quanto si fossero odiati, e con quale tenerezza, per tanti anni. Fu un'esplosione. Il conte di Cardona stava ascoltando il duetto d'amore della "Bohème", cantato da Licia Albanese e Beniamino Gigli, quando lo colse una raffica casuale delle notizie radiofoniche che Maria dos Prazeres ascoltava in cucina. Si avvicinò in punta di piedi e pure lui ascoltò. Il generale Francisco Franco, dittatore eterno di Spagna, si era assunto la responsabilità di decidere il destino finale di tre separatisti baschi che erano appena stati condannati a morte. Il conte cacciò un respiro di sollievo. «Allora li fucileranno senza scampo» disse, «perché il Caudillo è un uomo giusto.» Maria dos Prazeres fissò su di lui gli ardenti occhi di cobra reale, e vide le sue pupille senza passione dietro gli occhiali d'oro, i denti di animale da preda, le mani ibride di bestiaccia abituata all'umidità e alle tenebre. Così com'era. «Prega Iddio che non accada» disse, «perché basta che ne fucilino uno solo e ti metterò il veleno nella minestra.» Il conte si spaventò. «E perché mai?» «Perché anch'io sono una puttana giusta.» Il conte di Cardona non tornò più, e Maria dos Prazeres ebbe la certezza che l'ultimo ciclo della sua vita si era chiuso. Fino a poco prima, infatti, si indignava quando le cedevano il posto sugli autobus, quando la prendevano per il braccio e l'aiutavano a salire le scale, però aveva finito non solo per accettarlo ma addirittura per desiderarlo come un bisogno detestabile. Allora fece fare una lapide da anarchico, senza nome né date, e prese a dormire senza tirare il chiavistello della porta affinché il Noi potesse uscire ad avvisare se lei fosse morta nel sonno. Una domenica, entrando in casa di ritorno dal cimitero, incontrò sul pianerottolo delle scale la bambina che abitava nell'appartamento di fronte. L'accompagnò per diversi isolati, parlandole di tutto con un candore da nonna, mentre la guardava giocare col Noi quasi fossero vecchi amici. In Plaza del Diamante, come aveva previsto, le offrì un gelato. «Ti piacciono i cani?» le domandò. «Tantissimo» disse la bambina. Allora Maria dos Prazeres le fece la proposta che aveva pronta da molto tempo. «Se dovesse capitarmi qualcosa, prenditi cura del Noi» le disse «con l'unica condizione che lo lasci libero la domenica senza preoccuparti di nulla. Saprà lui quel che fa.» La bambina fu felice. Maria dos Prazeres, a sua volta, rincasò con la gioia di avere vissuto un sogno maturato per anni nel suo cuore. Tuttavia, non fu per la stanchezza della vecchiaia né per l'indugio della morte che quel sogno non si avverò. Non fu neppure una decisione propria. La vita l'aveva presa per lei in un pomeriggio gelido di novembre in cui si scatenò un temporale improvviso mentre usciva dal cimitero. Aveva scritto i nomi sulle tre lapidi e scendeva a piedi verso la fermata degli autobus quando si ritrovò fradicia da capo a piedi ai primi scrosci di pioggia. Ebbe appena il tempo di ripararsi sotto i portici di un quartiere deserto che sembrava di un'altra città, con botteghe in rovina e fabbriche polverose, ed enormi furgoni da carico che rendevano più spaventoso lo strepito del temporale. Mentre cercava di scaldare col suo corpo il cagnolino inzuppato, Maria dos Prazeres vedeva passare gli autobus pieni, vedeva passare i taxi vuoti con la bandierina spenta, ma nessuno prestava attenzione ai suoi segni da naufrago. D'improvviso, quando ormai sembrava impossibile persino un miracolo, un'automobile sontuosa color acciaio crepuscolare passò quasi senza rumore nella strada inondata, si fermò bruscamente all'angolo e fece marcia indietro fin dove stava lei. Il vetro scese per un soffio magico, e l'autista le propose un passaggio. «Vado molto lontano» disse Maria dos Prazeres con sincerità. «Ma mi farebbe un grosso piacere se mi avvicinasse un po'.» «Mi dica dove va» insistette lui. «A Gracia» disse lei. La portiera si aprì senza essere toccata. «E' la mia direzione» disse lui. «Salga.» Nell'interno odoroso di medicina refrigerata, la pioggia si tramutò in un contrattempo irreale, la città cambiò colore, e lei si sentì in un mondo estraneo e felice dove tutto era già risolto. L'autista si faceva strada attraverso il disordine del traffico con una fluidità che aveva qualcosa della magia. Maria dos Prazeres era intimidita, non solo dalla propria miseria ma anche da quella del cagnolino di squallore che le dormiva in grembo. «Questo è un transatlantico» disse, perché sentì di dover dire qualcosa ammodo. «Non avevo mai visto nulla di simile, neppure in sogno.» «In realtà, l'unica cosa brutta che ha è che non è mia» disse lui, in un catalano difficile, e dopo una pausa aggiunse in spagnolo: «Lo stipendio di tutta la vita non mi basterebbe per comprarla». «Me lo immagino» sospirò lei. Lo scrutò con la coda dell'occhio, illuminato di verde dal chiarore del quadro dei comandi, e vide che era quasi un adolescente, con i capelli corti e ricci, e un profilo da bronzo romano. Pensò che non era bello, ma che aveva un fascino diverso, che gli stava benissimo la giacca di pelle da pochi soldi sciupata dall'uso, e che sua madre doveva essere molto felice quando lo sentiva rincasare. Solo per via delle mani da lavoratore si poteva credere che davvero non fosse il proprietario dell'automobile. Non parlarono più per tutto il tragitto, ma anche Maria dos Prazeres si sentì spesso scrutata con la coda dell'occhio e ancora una volta si rammaricò di essere viva alla sua età. Si sentì brutta e pietosa, con la sciarpetta che si era messa in testa alla bell'e meglio quando aveva cominciato a piovere, e lo striminzito cappotto autunnale che pensando alla morte non aveva ritenuto opportuno cambiare. Quando arrivarono al quartiere di Gracia aveva cominciato a rasserenarsi, era notte ed erano accese le luci per le vie. Maria dos Prazeres indicò al suo autista che la lasciasse a un incrocio lì vicino, ma lui insistette per portarla fin davanti a casa, e non solo lo fece ma parcheggiò sul marciapiede affinché potesse scendere senza bagnarsi. Lei mollò il cagnolino, cercò di uscire dall'automobile con tutta la dignità che il corpo le permetteva, e quando si voltò per ringraziare si ritrovò davanti a uno sguardo d'uomo da rimanere senza fiato. Lo resse per un istante, senza capire bene chi aspettava cosa, ne da chi, e allora lui le domandò con voce decisa: «Salgo?» Maria dos Prazeres si sentì umiliata. «La ringrazio molto per il passaggio che mi ha dato» disse, «ma non le permetto di prendermi in giro.» «Non ho alcun motivo per prendere in giro la gente» disse lui in spagnolo con una serietà risoluta. «E tanto meno una donna come lei.» Maria dos Prazeres aveva conosciuto molti uomini come quello, ne aveva salvati dal suicidio molti altri più audaci ancora, ma nella sua lunga vita non aveva mai avuto tanta paura di decidere. Lo udì insistere senza il minimo indizio di mutamento nella voce: «Salgo?» Lei si allontanò senza chiudere la portiera dell'automobile, e gli rispose in spagnolo per essere sicura che la capisse. «Faccia quel che vuole.» Entrò nell'atrio illuminato dalla luce obliqua della via, e prese a salire la prima rampa di scale con le ginocchia tremule, soffocata da un panico che avrebbe creduto possibile solo nel momento di morire. Quando si fermò davanti alla porta dell'ammezzato, rabbrividendo di ansia per trovare le chiavi nella tasca, udì sbattere successivamente le due portiere dell'automobile in strada. Il Noi, che si era fatto avanti, tentò di abbaiare. «Zitto» gli ordinò con un sussurro da agonia. Quasi subito sentì i primi passi sui gradini sgangherati delle scale e temette che il cuore le scoppiasse. In una frazione di secondo riesaminò completamente il sogno premonitore che le aveva cambiato la vita per tre anni, e capì l'errore della sua interpretazione. «Dio mio» si disse spaventata. «Sicché non era la morte!» Trovò infine la serratura, mentre sentiva i passi decisi nel buio, mentre sentiva il respiro crescente di qualcuno che si avvicinava spaventato come lei nel buio, e allora capì che era valsa la pena di aspettare tanti e tanti anni, e di avere sofferto tanto nel buio, fosse anche solo per vivere quell'istante. maggio 1979. Diciassette inglesi avvelenati. La prima cosa che notò la signora Prudencia Linero quando arrivò al porto di Napoli, fu che aveva lo stesso odore del porto di Riohacha. Non lo raccontò a nessuno, naturalmente, perché nessuno l'avrebbe capito su quel transatlantico senile zeppo di italiani di Buenos Aires che tornavano in patria per la prima volta dopo la guerra, comunque si sentì meno sola, meno spaventata e distante, a settantadue anni di età e a diciotto giorni di brutto mare dalla sua gente e dalla sua casa. Fin dall'alba si erano viste le luci di terra. I passeggeri si alzarono più presto del solito, vestiti con abiti nuovi e col cuore oppresso dall'incertezza dello sbarco, sicché quell'ultima domenica a bordo sembrò essere davvero l'unica in tutto il viaggio. La signora Prudencia Linero fu una delle pochissime che assistettero alla messa. A differenza dei giorni precedenti in cui girava per la nave vestita a mezzo lutto, per sbarcare aveva indossato una tunica grigia di tela grossolana col cordone di san Francesco alla vita, e un paio di sandali di cuoio grezzo che solo perché nuovi non sembravano da pellegrino. Era un pagamento anticipato: aveva promesso a Dio di portare quell'abito talare fino alla morte se le concedeva la grazia di potersi recare a Roma per vedere il Sommo Pontefice, e ormai considerava la grazia concessa. Al termine della messa accese una candela allo Spirito Santo per il coraggio che le aveva infuso di sopportare i temporali dei Caraibi, e recitò una preghiera per ognuno dei nove figli e quattordici nipoti che in quel momento la sognavano nella notte di venti di Riohacha. Quando salì in coperta dopo la colazione, la vita della nave era mutata. I bagagli stavano ammucchiati nella sala da ballo, fra ogni sorta di oggetti per turisti comprati dagli italiani nei mercati di magia delle Antille, e sul banco del bar c'era una scimmia di Pernambuco dentro una gabbia di rete di ferro. Era un mattino radioso all'inizio di agosto. Una domenica esemplare di quelle estati del dopoguerra in cui la luce si comportava come una rivelazione di ogni giorno, e la nave enorme si muoveva pianissimo, con ansiti da malato, sopra uno stagno diafano. La fortezza tenebrosa dei duchi di Angiò cominciava appena a stagliarsi all'orizzonte, ma i passeggeri affacciati ai parapetti credevano di riconoscere i luoghi familiari, e li indicavano senza vederli con certezza gridando di gioia in dialetti meridionali. La signora Prudencia Linero, che si era fatta tanti vecchi amici a bordo, che aveva badato ai bambini mentre i genitori ballavano e che aveva persino cucito un bottone della giubba al primo ufficiale, li trovò d'improvviso estranei e diversi. Lo spirito sociale, il calore umano che le aveva permesso di sopravvivere alle prime nostalgie nel sopore del tropico, erano scomparsi. Gli amori eterni d'altomare finivano alla vista del porto. La signora Prudencia Linero, che non conosceva la natura volubile degli italiani, pensò che il male non stava nel cuore degli altri ma nel suo, perché lei era l'unica che andava tra la folla che tornava. Così devono essere tutti i viaggi, pensò, sentendo per la prima volta nella vita la fitta dell'essere straniera, mentre contemplava da bordo le vestigia di tanti mondi estinti in fondo all'acqua. D'improvviso, una ragazza molto bella che le stava accanto la spaventò con un grido di orrore. «Mamma mia» disse, indicando il fondo. «Guardate lì.» Era un annegato. La signora Prudencia Linero lo vide galleggiare supino sul pelo dell'acqua, ed era un uomo maturo e calvo con una rara prestanza naturale, e i suoi occhi aperti e allegri avevano lo stesso colore del cielo all'alba. Indossava un abito da sera col panciotto di broccato, scarpe di vernice e una gardenia viva all'occhiello. Nella mano destra aveva un pacchettino cubico avvolto in carta da regalo, e le dita di ferro livido erano avvinghiate al nastro, l'unica cosa che avesse trovato per aggrapparsi nell'istante di morire. «Deve esser caduto da bordo» disse un ufficiale della nave. «Succede spesso d'estate in queste acque.» Fu una visione istantanea, perché allora stavano entrando nella baia e altri motivi meno lugubri distrassero l'attenzione dei passeggeri. Ma la signora Prudencia Linero continuò a pensare all'annegato le cui falde del frac ondeggiavano nella scia della nave. Non appena entrò nella baia, un rimorchiatore decrepito venne incontro alla nave e se la portò come per la cavezza fra i relitti di numerose navi militari distrutte durante la guerra. L'acqua stava trasformandosi in olio a mano a mano che la nave si faceva strada fra i relitti arrugginiti, e il caldo si fece ancora più feroce di quello di Riohacha alle due del pomeriggio. Dall'altra parte della strettoia, raggiante nel sole delle undici, apparve d'improvviso la città completa di palazzi chimerici e vecchie baracche variopinte accalcate sulle colline. Dal fondo smosso si levò allora un tanfo insopportabile che la signora Prudencia Linero riconobbe come l'odore di granchi marci del cortile di casa sua. Mentre durava la manovra, i passeggeri individuavano fra la ressa sul molo i parenti che smaniavano di gioia. Per la maggior parte erano matrone autunnali dai seni fiammanti, soffocate dentro i vestiti a lutto, con i bambini più belli e numerosi della terra, e mariti piccoli e diligenti, del genere imperituro di quelli che leggono il giornale dopo le loro mogli e si vestono da notai severi malgrado il caldo. In mezzo a quello schiamazzo da fiera, un uomo molto vecchio dall'aspetto inconsolabile, con un soprabito da mendicante, a due mani tirava fuori dalle tasche manciate e manciate di pulcini teneri. In un istante riempirono il molo, pigolando impazziti ovunque, e solo perché animali di magia ce n'erano molti che continuavano a correre vivi dopo essere stati calpestati dalla folla estranea al prodigio. Il mago aveva posato il cappello per terra, ma da bordo nessuno gli lanciò neppure una moneta di carità. Affascinata dallo spettacolo di meraviglia che sembrava offerto in suo onore, perché solo lei lo apprezzava, la signora Prudencia Linero non si accorse di quando tesero la passerella, e una valanga umana invase la nave con gli ululati e l'impeto di un abbordaggio di bucanieri. Stordita dal giubilo e dal tanfo di cipolle rancide di tante famiglie nell'estate, spintonata dalle squadre di facchini che picchiandosi si disputavano i bagagli, si sentì minacciata dalla stessa morte senza gloria dei pulcini sul molo. Allora sedette sul suo baule di legno dagli angoli di latta dipinta, e rimase impavida a pregare un rosario vizioso di preghiere contro le tentazioni e i pericoli in terra di infedeli. Lì la trovò il primo ufficiale quando fu passato il cataclisma e rimase solo lei nella sala smantellata. «Nessuno deve stare qui a quest'ora» le disse l'ufficiale con una certa amabilità. «Posso esserle di aiuto?» «Devo aspettare il console» disse lei. Così era. Due giorni prima di salpare, il figlio maggiore aveva spedito un telegramma al console a Napoli, che era amico suo, per pregarlo che l'aspettasse al porto e l'aiutasse a proseguire fino a Roma. Gli aveva comunicato il nome della nave e l'ora di arrivo, e gli aveva pure indicato che avrebbe potuto riconoscerla dall'abito di san Francesco che si sarebbe messa per sbarcare. Lei si mostrò così ligia a quelle prescrizioni, che il primo ufficiale le permise di aspettare ancora un momento, malgrado fosse l'ora in cui pranzava l'equipaggio e avessero ammucchiato le seggiole sui tavoli e stessero lavando i ponti a secchiate d'acqua. Più volte dovettero spostare il baule per non bagnarlo, ma lei cambiava di posto senza turbarsi, senza interrompere le preghiere, finché non la fecero uscire dalle sale per i passeggeri e finì seduta in pieno sole fra le scialuppe di salvataggio. Lì la ritrovò il primo ufficiale un po' prima delle due del pomeriggio, che soffocava di sudore dentro lo scafandro da penitente, e recitava un rosario senza speranze, perché era terrorizzata e triste e dominava a stento la voglia di piangere. «E' inutile che continui a pregare» disse l'ufficiale, senza l'amabilità della prima volta. «In agosto persino Dio va in vacanza.» Le spiegò che mezza Italia era in spiaggia in quel periodo, soprattutto la domenica. Era probabile che il console non fosse in vacanza, considerata l'indole della sua carica, ma sicuramente non avrebbe aperto l'ufficio fino al lunedì. L'unica cosa ragionevole era recarsi in un albergo, riposare in pace quella notte, e il giorno dopo telefonare al consolato, il cui numero stava di certo sulla guida. Sicché la signora Prudencia Linero dovette rassegnarsi, e l'ufficiale l'aiutò nei tramiti dell'immigrazione e della dogana e del cambio di denaro, e la sistemò dentro un taxi con l'indicazione avventurosa di portarla in un albergo decente. Il taxi decrepito con inciampi da carro funebre avanzava sobbalzando fra le vie deserte. La signora Prudencia Linero pensò per un istante che l'autista e lei fossero le uniche creature vive in una città di fantasmi appesi a fili di ferro attraverso le strade, ma pensò pure che un uomo che parlava tanto, e con tanta passione, non poteva avere tempo per far del male a una povera donna sola che aveva sfidato i rischi dell'oceano per vedere il Papa. Al termine del labirinto di vie di nuovo si vedeva il mare. Il taxi continuò a sobbalzare lungo una spiaggia ardente e solitaria dove c'erano numerosi alberghi piccoli dai colori intensi. Ma non si fermò lì davanti, proseguendo fino al meno vistoso, situato in un giardino pubblico con grandi palme e panchine verdi. L'autista scaricò il baule sul marciapiede ombreggiato e, davanti all'incertezza della signora Prudencia Linero, le assicurò che quello era l'albergo più decente di Napoli. Un facchino bello e cortese si caricò il baule in spalla e si occupò di lei. La condusse fino all'ascensore di rete metallica improvvisato nella tromba delle scale, e prese a cantare un'aria di Puccini a piena voce e con una determinazione allarmante. Era un vetusto edificio di nove piani restaurati, a ognuno dei quali c'era un albergo diverso. La signora Prudencia Linero si sentì d'improvviso in un istante di allucinazione, cacciata dentro una gabbia per galline che saliva pianissimo in mezzo a una scala di marmi stentorei, e sorprendeva la gente nella propria casa, colta nei suoi dubbi più intimi, con le mutande bucate e i rutti acidi. Al terzo piano l'ascensore si fermò con uno scossone, e allora il facchino smise di cantare, aprì la porta a rombi pieghevoli e indicò alla signora Prudencia Linero, con una riverenza galante, che era a casa sua. Lei vide un adolescente languido dietro un bancone di legno dalle incrostazioni di vetri colorati nell'atrio con piante ombrose in vasi di rame. Le piacque subito, perché il dipendente aveva gli stessi riccioli da serafino del suo nipote minore. Le piacque il nome dell'albergo con le lettere incise su una placca di bronzo, le piacque l'odore di acido fenico, le piacquero le felci appese, il silenzio, gli iris d'oro della carta alle pareti. Fece poi un passo fuori dell'ascensore, e il cuore le si contrasse. Un gruppo di turisti inglesi in pantaloni corti e sandali da spiaggia dormicchiava in una lunga fila di poltrone. Erano diciassette, ed erano seduti in un ordine simmetrico, come se fossero stati uno solo più volte ripetuto in una galleria di specchi. La signora Prudencia Linero li vide senza distinguerli, in un solo colpo d'occhio, e l'unica cosa che la impressionò fu la lunga fila di ginocchia rosee che sembravano pezzi di maiale appesi ai ganci di una macelleria. Non fece più un passo verso il bancone, ma indietreggiò spaventata e rientrò nell'ascensore. «Andiamo a un altro piano» disse. «Questo è l'unico albergo che abbia una sala da pranzo, signora» disse il facchino. «Non importa» disse lei. Il facchino fece un gesto di rassegnazione, e cantò il pezzo che gli mancava della romanza, fino all'albergo del quinto piano. Lì tutto sembrava meno composto e la proprietaria era una matrona primaverile che parlava uno spagnolo facile, e non c'era nessuno che facesse la siesta sulle poltrone dell'atrio. Non c'era sala da pranzo, in effetti, ma l'albergo aveva una convenzione con una trattoria vicina affinché servisse i clienti a un prezzo speciale. Sicché la signora Prudencia Linero decise che sì, che si fermava per una notte, convinta dall'eloquenza e dalla simpatia della proprietaria come pure dal sollievo che non ci fosse alcun inglese dalle ginocchia rosee che dormiva nell'atrio. La camera aveva le persiane chiuse alle due del pomeriggio, e la penombra conservava la freschezza e il silenzio di una foresta recondita, e andava bene per piangere. Non appena fu rimasta sola, la signora Prudencia Linero tirò i due chiavistelli, e orinò per la prima volta dal mattino con uno sbocco tenue e difficile che le permise di riacquistare l'identità persa durante il viaggio. Poi si tolse i sandali e il cordone dell'abito e si distese dalla parte del cuore sul letto matrimoniale troppo largo e troppo solo per lei sola, e liberò l'altra sorgente delle sue lacrime arretrate. Non solo era la prima volta che si allontanava da Riohacha, ma una delle poche in cui si allontanava da casa sua dopo che i figli si erano sposati e se n'erano andati via, e lei era rimasta sola con due indiane scalze che si occupavano del corpo senza anima di suo marito. Metà della vita le si era consumata nella camera da letto davanti ai residui dell'unico uomo che avesse amato, e che rimase in letargo per quasi trent'anni, disteso sul letto dei suoi amori giovanili sopra un materasso di pelli di capra. Nell'ottobre precedente, il malato aveva aperto gli occhi in una raffica improvvisa di lucidità, aveva riconosciuto la sua gente e aveva chiesto che chiamassero un fotografo. Gli avevano portato il vecchio del parco con l'enorme apparecchio con mantice e la manica nera, e il piatto di magnesio per le foto domestiche. Lo stesso malato aveva diretto le fotografie. «Una per Prudencia, che tanto amore e tanta felicità mi ha dato» aveva detto. L'avevano fatta col primo lampo di magnesio. «Adesso altre due per le mie figlie adorate, Prudencita e Natalia» aveva detto. Le avevano fatte. «Altre due per i miei figli maschi, esempi della famiglia per il loro affetto e il loro giudizio» aveva detto. E così finché non erano finiti la carta e il magnesio, e il fotografo aveva dovuto andare a casa sua a rifornirsi. Alle quattro del pomeriggio, quando ormai non si poteva respirare nella camera per via dei fumi di magnesio e della calca di parenti, amici e conoscenti accorsi a prendere le loro copie del ritratto, l'invalido aveva cominciato a venir meno nel letto, e si era congedato da tutti salutando con la mano come svanendo dal mondo a bordo di una nave. La sua morte non era stata per la vedova il sollievo che tutti speravano. Al contrario, ne era rimasta così afflitta, che i figli si erano riuniti per domandarle come avrebbero potuto consolarla, e lei aveva risposto loro che voleva solo recarsi a Roma per conoscere il Papa. «Ci andrò sola e con l'abito di san Francesco» li avvertì. «E' un voto.» L'unica cosa gradita che le fosse rimasta di quegli anni di veglia era il piacere di piangere. Sulla nave, finché aveva dovuto spartire la cabina con due monache clarisse scese a Marsiglia, si era trattenuta nel bagno per piangere senza essere vista. Sicché la stanza dell'albergo di Napoli fu l'unico luogo propizio che avesse trovato per piangere con agio dopo la partenza da Riohacha. E avrebbe pianto fino al giorno successivo quando sarebbe partito il treno per Roma, ma la proprietaria bussò alla sua porta alle sette per avvisarla che se non fosse arrivata per tempo alla trattoria sarebbe rimasta senza mangiare. L'impiegato dell'albergo l'accompagnò. Una brezza fresca aveva cominciato a soffiare dal mare, e c'erano ancora alcuni bagnanti sulla spiaggia sotto il sole pallido delle sette. La signora Prudencia Linero seguì l'impiegato nel labirinto di vie ripide e strette che cominciavano appena a svegliarsi dalla siesta della domenica, e si ritrovò d'improvviso sotto un pergolato ombroso, dove c'erano tavoli per mangiare con tovaglie a quadretti rossi e barattoli di sottaceti usati come vasi con fiori di carta. Gli unici commensali così di buon'ora erano gli stessi servitori, e un prete poverissimo che mangiava pane e cipolle in un angolo discosto. Entrando, lei sentì lo sguardo di tutti per via dell'abito grigio, ma non si turbò, perché era consapevole che il ridicolo faceva parte della penitenza. La cameriera, invece, le suscitò una punta di pietà, perché era bionda e bella e parlava come se cantasse, e lei pensò che in Italia dovevano passarsela molto male dopo la guerra se una ragazza come quella era costretta a far la cameriera in una trattoria. Ma si sentì bene nell'ambiente floreale del pergolato, e l'aroma di stufato con alloro della cucina le risvegliò la fame rinviata dall'inquietudine della giornata. Per la prima volta dopo molto tempo non aveva voglia di piangere. Comunque, non riuscì a mangiare in pace. In parte perché faticò a intendersi con la cameriera bionda, per quanto fosse simpatica e paziente, e in parte perché l'unica carne che c'era da mangiare erano certi uccelletti canterini simili a quelli che allevavano in gabbia nelle case di Riohacha. Il prete che mangiava nell'angolo, e che finì per servir loro da interprete, cercò di farle capire che in Europa le emergenze della guerra non erano finite, e bisognava considerare un miracolo il fatto che ci fossero almeno uccelletti di bosco da mangiare. Ma lei li rifiutò. «Per me» disse «sarebbe come mangiare un figlio.» Così dovette accontentarsi di una pastina in brodo, un piatto di zucchine bollite con qualche striscia di lardo rancido, e un pezzo di pane che sembrava di marmo. Mentre mangiava, il prete si avvicinò e la supplicò che per carità lo invitasse a prendere una tazza di caffè, e si sedette con lei. Era slavo, ma aveva fatto il missionario in Bolivia, e parlava uno spagnolo difficile ed espressivo. Alla signora Prudencia Linero sembrò un uomo volgare e senza la minima traccia di indulgenza, e notò che aveva mani indegne con le unghie scheggiate e sudicie, e un fiato di cipolle così persistente che sembrava piuttosto un attributo del carattere. Ma dopotutto era al servizio di Dio, ed era un piacere nuovo incontrare una persona con cui intendersi così lontano da casa. Chiacchierarono piano, estranei al denso rumore da stalla che li circondava a mano a mano che i commensali occupavano gli altri tavoli. La signora Prudencia Linero aveva già un parere definitivo sull'Italia: non le piaceva. E non tanto perché gli uomini fossero un po' oltranzosi, il che non era poco, né perché si mangiavano gli uccelli, il che era già troppo, ma per la brutta abitudine di lasciare gli annegati alla deriva. Il prete, che oltre al caffè si era fatto offrire anche un bicchierino di grappa, cercò di farle vedere la leggerezza del suo parere. Durante la guerra era stato istituito un servizio molto efficace per riscattare, identificare e seppellire in terra consacrata i numerosi annegati che all'alba galleggiavano nella baia di Napoli. «Da secoli» concluse il prete «gli italiani hanno preso coscienza del fatto che c'è una sola vita, e cercano di viverla meglio che possono. Questo li ha resi calcolatori e volubili, ma li ha pure guariti dalla crudeltà.» «Non hanno neanche fermato la nave» disse lei. «Quel che fanno è avvertire per radio le autorità del porto» disse il prete. «A quest'ora devono averlo già raccolto e seppellito nel nome di Dio.» La discussione cambiò l'umore di entrambi. La signora Prudencia Linero aveva finito di mangiare, e solo allora si accorse che tutti i tavoli erano occupati. A quelli più vicini, intenti a mangiare in silenzio, c'erano turisti quasi nudi, e fra loro alcune coppie di innamorati che si baciavano invece di mangiare. Ai tavoli in fondo, accanto al bancone, c'era la gente del quartiere che giocava a dadi e beveva un vino senza colore. La signora Prudencia Linero capì che aveva un solo motivo per trovarsi in quel paese malaugurato. «Lei crede che sia molto difficile vedere il Papa?» domandò. Il prete le rispose che d'estate nulla era più facile. Il Papa passava le vacanze a Castelgandolfo, e il mercoledì pomeriggio riceveva in pubblica udienza i pellegrini del mondo intero. L'entrata costava pochissimo: venti lire. «E quanto prende per confessare una persona?» domandò lei. «Il Santo Padre non confessa nessuno» disse il prete, un po' scandalizzato, «tranne i re, ovviamente.» «Non vedo perché dovrebbe negare questo favore a una povera donna che viene da tanto lontano» disse lei. «Persino certi re, malgrado fossero re, sono morti aspettando» disse il prete. «Ma mi dica: dev'essere un peccato tremendo se lei ha fatto da sola un simile viaggio solo per confessarlo al Santo Padre.» La signora Prudencia Linero ci pensò un momento, e il prete la vide sorridere per la prima volta. «Ave Maria purissima!» disse. «Mi basterebbe vederlo.» E aggiunse con un sospiro che sembrò uscirle dall'anima: «E' stato il sogno della mia vita!» In realtà, era sempre spaventata e triste, e l'unica cosa che desiderava era andarsene via subito, non solo da quel posto ma dall'Italia. Il prete dovette pensare che da quella pazza non avrebbe più cavato nulla, sicché le augurò buona fortuna e se ne andò a un altro tavolo vicino a chiedere per carità che gli offrissero un caffè. Quando uscì dalla trattoria, la signora Prudencia Linero trovò che la città era mutata. La sorprese la luce del sole alle nove di sera, e la folla stridula che aveva invaso le vie rinfrancate da una brezza nuova. Non si poteva vivere con gli strepiti di tante motorette impazzite. Le guidavano uomini senza camicia con dietro le loro belle donne che li serravano alla vita, e si facevano strada a balzi serpeggiando fra i maiali appesi e le bancarelle di angurie. L'ambiente era festoso, ma alla signora Prudencia Linero sembrò da catastrofe. Si smarrì. Si ritrovò all'improvviso in una via intempestiva con donne taciturne sedute sulla soglia delle loro case tutte uguali, e le cui luci rosse e intermittenti le causarono un brivido di paura. Un uomo ben vestito, con un anello d'oro massiccio e un diamante alla cravatta, la seguì per diversi isolati dicendole qualcosa in italiano, e poi in inglese e in francese. Non ottenendo risposta, le mostrò una cartolina da un pacchetto che tirò fuori di tasca, e a lei bastò solo un colpo d'occhio per sentire che stava attraversando l'inferno. Fuggì via impaurita, ma alla fine della strada ritrovò il mare crepuscolare con lo stesso tanfo di granchi marci del porto di Riohacha, e il cuore le tornò al suo posto. Riconobbe gli alberghi colorati davanti alla spiaggia deserta, i taxi funebri, il diamante della prima stella nel cielo immenso. In fondo alla baia, solitaria al molo, riconobbe la nave su cui era arrivata, enorme e con i ponti illuminati, e si rese conto che non aveva più nulla a che vedere con la sua vita. Lì girò a sinistra, ma non le fu possibile proseguire, perché c'era una folla di curiosi tenuti a bada da una pattuglia di carabinieri. Una fila di ambulanze aspettava con le portiere aperte davanti all'edificio del suo albergo. Sollevandosi sopra le spalle dei curiosi, la signora Prudencia Linero rivide allora i turisti inglesi. Stavano portandoli fuori in barella, uno per uno, e tutti erano immobili e dignitosi, e sembravano sempre uno solo più volte ripetuto col vestito ammodo che avevano indossato per la cena: pantaloni di flanella, cravatta a righe diagonali, e la giacca scura con lo stemma del Trinity College ricamato sul taschino. I vicini affacciati ai balconi, e i curiosi bloccati nella via, li contavano in coro, come in uno stadio, a mano a mano che li portavano fuori. Erano diciassette. Li sistemarono nelle ambulanze a due a due, e li portarono via con uno strepito di sirene da guerra. Frastornata da tanti stupori, la signora Prudencia Linero salì sull'ascensore zeppo di clienti degli altri alberghi che parlavano in lingue ermetiche. Scesero a tutti i piani, tranne il terzo, che era aperto e illuminato ma non c'era nessuno al banco e neppure nelle poltrone dell'atrio, dove aveva visto le ginocchia rosee dei diciassette inglesi addormentati. La proprietaria del quinto piano commentava il disastro in un'eccitazione senza controllo. «Sono tutti morti» disse alla signora Prudencia Linero in spagnolo. «Si sono avvelenati con la zuppa di ostriche della cena. Ostriche in agosto, si figuri!» Le consegnò la chiave della stanza, senza più prestarle attenzione, mentre diceva agli altri clienti nel suo dialetto: «Visto che qui non c'è sala da pranzo, chiunque si corica per dormire si sveglia vivo». Di nuovo col groppo di lacrime in gola, la signora Prudencia Linero tirò i chiavistelli della sua camera. Poi spinse contro la porta la piccola scrivania e la poltrona, e sistemò infine il baule come una barricata invalicabile contro l'orrore di quel paese dove accadevano tante cose al contempo. Poi si infilò la camicia da notte vedovile, si distese supina sul letto, e recitò diciassette rosari per l'eterno riposo delle anime dei diciassette inglesi avvelenati. aprile 1980. Tramontana. Lo vidi una sola volta al Boccaccio, la discoteca alla moda di Barcellona, poche ore prima della sua mala morte. Era braccato da una combriccola di giovani svedesi che cercavano di portarselo via alle due del mattino per finire la festa a Cadaqués. Erano undici, e si faticava a distinguerli, perché gli uomini e le donne sembravano uguali: belli, con fianchi stretti e lunghe chiome dorate. Lui non doveva avere più di vent'anni. Aveva la testa coperta di riccioli unti, la pelle citrina e tersa dei caraibici abituati dalle loro mamme a camminare all'ombra, e uno sguardo arabo da far cascare in deliquio le turiste svedesi, e forse anche parecchi degli svedesi. L'avevano fatto sedere sul bancone come un pupazzo da ventriloquo, e gli cantavano canzoni alla moda accompagnandosi con le palme delle mani, per convincerlo ad andarsene con loro. Lui, terrorizzato, spiegava i suoi motivi. Qualcuno intervenne gridando per esigere che lo lasciassero in pace, e uno degli svedesi lo spinse via morto dal ridere. «E' nostro» gridò. «L'abbiamo trovato nel cassonetto della spazzatura.» Io ero entrato poco prima con un gruppo di amici dopo l'ultimo concerto di David Oistrakh al Palau de la Música, e mi si accapponò la pelle davanti all'incredulità degli svedesi. Perché i motivi del ragazzo erano sacrosanti. Aveva vissuto a Cadaqués fino all'estate precedente, dove l'avevano assunto per cantare canzoni delle Antille in un bar alla moda, finché non l'aveva sconfitto la tramontana. Era riuscito a fuggire il secondo giorno deciso a non tornare mai più, con tramontana o senza, sicuro che se ci fosse tornato lo aspettava la morte. Era una certezza caraibica che non poteva essere intesa da una banda di nordici razionalisti, eccitati dall'estate e dai duri vini catalani di quell'epoca, che seminavano idee prepotenti nel cuore. Io lo capivo benissimo. Cadaqués era uno dei paesini più belli della Costa Brava, e anche il meglio conservato. Lo si doveva in parte al fatto che la strada di accesso era un cornicione stretto e contorto sul bordo di un abisso senza fondo, dove bisognava avere un bel fegato per guidare a più di cinquanta chilometri all'ora. Le case di sempre erano bianche e basse, nello stile tradizionale dei villaggi di pescatori del Mediterraneo. Quelle nuove erano costruite da architetti di fama che avevano rispettato l'armonia originale. D'estate, quando il caldo sembrava arrivare dai deserti africani del marciapiede di fronte, Cadaqués si trasformava in una Babele infernale, con turisti di tutta l'Europa che per tre mesi contendevano quel paradiso alla gente del posto e ai forestieri che avevano avuto la fortuna di comprarsi una casa a buon prezzo quando ancora era possibile. Tuttavia, in primavera e in autunno, che erano i periodi in cui Cadaqués era più gradevole, nessuno smetteva di pensare con timore alla tramontana, un vento di terra inclemente e tenace che, come pensavano la gente del posto e certi scrittori rinsaviti, reca con sé i germi della follia. Quindici anni fa io ero uno dei suoi visitatori assidui, finché la tramontana non irruppe nelle nostre vite. Io la sentii prima che arrivasse, una domenica all'ora della siesta, col presagio inspiegabile che qualcosa stesse per accadere. Mi sentii depresso, irrimediabilmente triste, ed ebbi l'impressione che i miei figli, che allora non avevano ancora dieci anni, mi seguissero per la casa con sguardi ostili. Il portinaio entrò di lì a poco con una scatola di utensili e funi da marinaio per assicurare porte e finestre, e non si stupì della mia prostrazione. «E' la tramontana» mi disse. «Prima di un'ora sarà qui.» Era un antico uomo di mare, molto vecchio, che del mestiere conservava il giaccone impermeabile, il berretto e la pipa, e la pelle bruciacchiata dai sali del mondo. Nelle sue giornate libere giocava a bocce nella piazza con veterani di diverse guerre perdute, e beveva aperitivi con i turisti nelle taverne del porto, perché aveva la virtù di farsi capire in qualsiasi lingua col suo catalano da artigliere. Si vantava di conoscere tutti i porti del mondo, ma nessuna città dell'entroterra. «Neppure Parigi in Francia con tutto quello che è» diceva. Non dava credito ad alcun veicolo che non fosse per mare. Negli ultimi anni era invecchiato di colpo, e non era tornato in strada. Passava la maggior parte del tempo nello stambugio della portineria, solo nell'anima, come sempre aveva vissuto. Si cucinava i pasti in una latta e su un fornello ad alcol, ma gli bastava per deliziarci tutti con le squisitezze della cucina gotica. Fin dall'alba si occupava degli inquilini, piano per piano, ed era uno degli uomini più servizievoli che abbia mai conosciuto, con la generosità involontaria e la tenerezza ruvida dei catalani. Parlava poco, ma il suo stile era diretto e sicuro. Quando non aveva più nulla da fare passava ore riempiendo schedine di pronostici del calcio che molto di rado giocava. Quel giorno, mentre assicurava porte e finestre in previsione del disastro, ci parlò della tramontana come se fosse stata una donna abominevole ma senza la quale la sua vita non avrebbe avuto senso. Mi stupì che un uomo di mare rendesse un simile tributo a un vento di terra. «Questo è il più antico» disse. Dava l'impressione che il suo anno non fosse diviso in giorni e mesi ma nel numero di volte in cui arrivava la tramontana. «L'anno scorso, un tre giorni dopo la seconda tramontana, ho avuto una crisi di coliche» mi disse una volta. Forse questo spiegava la sua credenza per cui dopo ogni tramontana ci si ritrovava più vecchi di diversi anni. Era tale la sua ossessione, che ci trasmise l'ansia di conoscerla come una visitatrice mortale e appetibile. Non ci fu molto da aspettare. Non appena il portinaio fu uscito si udì un sibilo che a poco a poco si fece sempre più acuto e intenso, e si dissolse in uno strepito da tremor di terra. Allora cominciò il vento. Dapprima a raffiche intervallate sempre più frequenti, finché una non rimase immobile, senza una pausa, senza una tregua, con un'intensità e una sevizia che avevano qualcosa di sovrannaturale. Il nostro appartamento, contrariamente a quanto in uso nei Caraibi, stava davanti alla montagna, forse per lo strano gusto dei vecchi catalani che amano il mare ma senza vederlo. Sicché il vento ci colpiva di fronte e minacciava di spezzare le amarre delle finestre. Quel che più mi colpi fu che il tempo era sempre di una bellezza irripetibile, con un sole d'oro e il cielo impavido. A tal punto, che decisi di uscire in strada con i bambini per vedere com'era il mare. Loro, in fin dei conti, erano cresciuti fra i terremoti di Città del Messico e gli uragani dei Caraibi, e un vento in più o in meno non ci sembrò capace di turbar nessuno. Passammo in punta di piedi davanti allo stambugio del portiere, e lo vedemmo statico dinanzi a un piatto di fagioli con salame piccante, che contemplava il vento dalla finestra. Non ci vide uscire. Riuscimmo a camminare finché restammo riparati dalla casa, ma spingendoci oltre l'angolo fummo costretti ad abbracciarci a un lampione per non essere trascinati via dalla furia del vento. Rimanemmo così, ad ammirare il mare immobile e diafano in mezzo al cataclisma, finché il portinaio, con l'aiuto di alcuni vicini, non venne a soccorrerci. Solo allora ci convincemmo che l'unica cosa razionale era rimanere chiusi in casa finché così avesse voluto Dio. E nessuno aveva allora la minima idea di quanto a lungo così avrebbe voluto. Dopo due giorni avevamo l'impressione che quel vento spaventoso non fosse un fenomeno meteorologico, ma un oltraggio personale. Una cosa che qualcuno stava facendo contro qualcun altro, e contro uno solo. Il portinaio veniva a trovarci più volte al giorno, preoccupato per il nostro stato d'animo, e ci portava frutta di stagione e torrone per i bambini. Per il pranzo del martedì, ci regalò il capolavoro della cucina catalana, preparato nella sua latta: coniglio con lumache. Fu una festa in mezzo all'orrore. Il mercoledì, in cui non accadde altro che il vento, fu la giornata più lunga della mia vita. Ma dovette essere un po' come l'oscurità dell'alba, perché dopo la mezzanotte ci risvegliammo tutti al contempo, oppressi da un silenzio assoluto che solo poteva essere quello della nostra morte. Non si muoveva una foglia degli alberi dalla parte della montagna. Sicché uscimmo in strada quando ancora non c'era luce nella stanza del portinaio, e ci godemmo il cielo del primo mattino con tutte le stelle accese, e il mare fosforescente. Per quanto non fossero ancora le cinque, molti turisti si godevano quel sollievo sulla spiaggia sassosa, e cominciavano a preparare le barche a vela dopo tre giorni di penitenza. Uscendo non ci aveva colpiti il fatto che la stanza del portinaio fosse al buio. Ma quando rincasammo l'aria aveva ormai la stessa fosforescenza del mare, e il suo stambugio era sempre spento. Stupito, bussai due volte, e visto che non rispondeva, spinsi la porta. Credo che i bambini lo videro prima di me, e cacciarono un grido di spavento. Il vecchio portinaio, con le sue insegne di navigatore accorto attaccate al bavero della giacca marinara, era appeso per il collo alla trave centrale, e ancora dondolava all'ultimo soffio della tramontana. In piena convalescenza, e con una sensazione di nostalgia anticipata, ce ne andammo dal villaggio prima del previsto, con la risoluzione irrevocabile di non tornarci mai più. I turisti erano di nuovo in strada, e c'era musica nella piazza dei veterani, che a stento riuscivano a lanciare le bocce. Attraverso i vetri polverosi del bar Marítim ci fu possibile vedere alcuni amici sopravvissuti, che riprendevano a vivere nella primavera radiosa della tramontana. Ma tutto quello apparteneva ormai al passato. Per questo, nell'alba triste del Boccaccio, nessuno capiva meglio di me il terrore di chi non voleva tornare a Cadaqués, perché era sicuro di morire. Tuttavia, non ci fu verso di dissuadere gli svedesi, che finirono per portarsi via di peso il ragazzo con la pretesa europea di somministrargli una cura efficace con le loro soperchierie africane. Lo cacciarono sgambettante in un camioncino di ubriachi, in mezzo agli applausi e ai fischi della clientela divisa, e intrapresero a quell'ora il lungo viaggio per Cadaqués. La mattina dopo mi svegliò il telefono. Avevo dimenticato di chiudere le tende tornando dalla festa e non avevo la minima idea dell'ora, ma la stanza era ricolma dello splendore dell'estate. La voce ansiosa al telefono, che subito non riuscii a riconoscere, finì per svegliarmi. «Ricordi il ragazzo che la notte scorsa si sono portati a Cadaqués?» Non dovetti ascoltare oltre. Solo che non fu come me l'ero immaginato, ma in maniera addirittura più drammatica. Il ragazzo, spaventato dall'imminenza del ritorno, aveva approfittato di una distrazione dei matti svedesi e si era lanciato nell'abisso dal camioncino in marcia, cercando di sfuggire a una morte ineluttabile. gennaio 1982. L'estate felice della signora Forbes. Nel pomeriggio, di ritorno a casa, trovammo un enorme serpente marino inchiodato per il collo sullo stipite della porta, ed era nero e fosforescente e sembrava un maleficio di zingari, con gli occhi ancora vivi e i denti a saracco nelle mascelle spalancate. Io dovevo avere allora nove anni, e provai un terrore così intenso dinanzi a quell'apparizione da delirio, che mi si blocco la voce. Ma mio fratello, che aveva due anni meno di me, mollò le bombole di ossigeno, le maschere e le pinne e scappò via con un grido di terrore. La signora Forbes lo udì fin dalla tortuosa scala di pietre che si arrampicava su per gli scogli dall'imbarcadero fino a casa, e ci raggiunse, ansimante e livida, ma le bastò vedere l'animale crocefisso sulla porta per capire la causa del nostro orrore. Lei diceva sempre che quando due bambini sono insieme, sono tutt'e due colpevoli di quel che ognuno fa separatamente, sicché ci sgridò entrambi per le grida di mio fratello, e continuò a rimproverarci per la nostra mancanza di controllo. Parlò in tedesco, e non in inglese, come prevedeva il suo contratto di istitutrice, forse perché pure lei era spaventata e rifiutava di ammetterlo. Ma non appena ebbe ripreso fiato tornò al suo inglese sassoso e alla sua ossessione pedagogica. «E' una "muraena helena"» ci disse, «così chiamata perché fu un animale sacro per gli antichi greci.» Oreste, il ragazzo del luogo che ci insegnava a nuotare in profondità, comparve d'improvviso dietro gli arbusti di capperi. Portava la maschera da subacqueo sulla fronte, un costume da bagno minuscolo e una cintura di cuoio con sei coltelli, di forme e grandezze diverse, perché non concepiva altro modo di cacciare sott'acqua che lottando corpo a corpo con gli animali. Aveva una ventina di anni, passava più tempo nei fondali marini che sulla terra ferma e lui stesso sembrava un animale del mare col corpo sempre impiastricciato di olio da motore. Vedendolo per la prima volta la signora Forbes aveva detto ai miei genitori che era impossibile concepire una creatura umana più bella. Tuttavia, la sua bellezza non lo esentava dal rigore: anche lui dovette subire una reprimenda in italiano per avere appeso la murena alla porta, senza altra spiegazione possibile che quella di spaventare i bambini. Poi, la signora Forbes ordinò che la staccasse col rispetto dovuto a una creatura mitica e ci mandò a vestirci per la cena. Lo facemmo subito e tentando di non commettere un solo errore, perché dopo due settimane sotto il regime della signora Forbes avevamo imparato che nulla era più difficile che vivere. Mentre ci facevamo la doccia nel bagno, in penombra, mi resi conto che mio fratello stava sempre pensando alla murena. «Aveva occhi da persona» mi disse. Io ero d'accordo, ma gli feci credere il contrario, e continuai a cambiare argomento finché non ebbi finito di lavarmi. Ma quando uscii dalla doccia mi chiese di fermarmi per fargli compagnia. «E' ancora giorno» gli dissi. Aprii le tende. Era pieno agosto, e attraverso la finestra si vedevano l'ardente pianura lunare fino all'altra parte dell'isola, e il sole fermo nel cielo. «Non è per questo» disse mio fratello. «E' che ho paura di avere paura.» Comunque, quando arrivammo a tavola sembrava tranquillo, e aveva fatto le cose con tanta cura che meritò un apprezzamento speciale della signora Forbes, e altri due punti nel conto del suo profitto settimanale. Quanto a me, invece, mi tolse due punti dei cinque che avevo già guadagnato, perché all'ultimo momento mi ero lasciato trascinare dalla fretta ed ero arrivato in sala da pranzo col respiro affannato. Ogni cinquanta punti davano diritto a una doppia razione di dolce, ma nessuno di noi due era riuscito ad andare oltre i quindici punti. Era un peccato, davvero, perché non trovammo mai più un pudding delizioso come quello della signora Forbes. Prima di cominciare la cena pregavamo in piedi davanti ai piatti vuoti. La signora Forbes non era cattolica, ma il suo contratto stabiliva che ci facesse pregare sei volte al giorno, e aveva imparato le nostre preghiere per esservi ligia. Poi ci sedevamo tutt'e tre, trattenendo il respiro mentre lei controllava persino il dettaglio più infimo della nostra condotta, e solo quando tutto le sembrava perfetto faceva risuonare il campanello. Allora entrava Fulvia Flaminea, la cuoca, con l'eterna pastina in brodo di quell'estate aborrita. All'inizio, quando eravamo soli con i nostri genitori, i pasti erano una festa. Fulvia Flaminea ci serviva chiocciando intorno alla tavola, con una vocazione al disordine che rallegrava la vita, e infine si sedeva con noi e finiva per mangiare un po' dai piatti di tutti. Ma dopo che la signora Forbes si era fatta carico del nostro destino ci serviva in un silenzio così buio, che potevamo udire il borboglio della minestra mentre bolliva nella pentola. Cenavamo con la spina dorsale appoggiata alla spalliera della seggiola, masticando dieci volte con una mascella e dieci volte con l'altra, senza scostare lo sguardo dalla ferrea e languida donna autunnale, che recitava a memoria una lezione di urbanità. Era come la messa della domenica, ma senza il conforto della gente che cantava. Il giorno in cui trovammo la murena appesa alla porta, la signora Forbes ci parlò dei doveri verso la patria. Fulvia Flaminea, quasi fluttuando nell'aria rarefatta dalla voce, ci servì dopo la minestra un filetto alla brace di una carne nivea, con un odore squisito. Io, che già allora preferivo il pesce a qualsiasi altra cosa da mangiare della terra o del cielo, mi ritrovai col cuore blandito da quel ricordo della nostra casa di Guacamayal. Ma mio fratello respinse il piatto senza assaggiarlo. «Non mi piace» disse. La signora Forbes interruppe la lezione. «Non puoi saperlo» gli disse, «non l'hai neppure assaggiato.» Rivolse alla cuoca uno sguardo di allarme, ma ormai era troppo tardi. «La murena è il pesce più saporito del mondo, figlio mio» gli disse Fulvia Flaminea. «Assaggialo e vedrai.» La signora Forbes non si turbò. Ci raccontò, col suo metodo inclemente, che la murena era un cibo da re nell'antichità, e che i guerrieri si contendevano il suo fiele perché infondeva un coraggio sovrannaturale. Poi ci ripeté, come tante altre volte in così poco tempo, che il buon gusto non è una virtù congenita, e che neppure lo si insegna a una qualche età, ma che si impone sin dall'infanzia. Sicché non c'era alcun motivo valido per non mangiare. Io, che avevo assaggiato la murena prima di sapere cosa fosse, rimasi per sempre con quella contraddizione: aveva un sapore terso, sebbene un po' malinconico, ma l'immagine del serpente trafitto sullo stipite era più incalzante dell'appetito. Mio fratello fece uno sforzo supremo col primo boccone, ma non riuscì a tollerarlo: vomitò. «Va' in bagno» gli disse la signora Forbes senza turbarsi, «lavati per bene e torna a mangiare.» Provai una grande angoscia per lui, perché sapevo quanto gli costava attraversare tutta la casa alle prime ombre e rimanere da solo in bagno il tempo necessario per lavarsi. Ma tornò molto presto, con un'altra camicia pulita, pallido e appena scosso da un tremito recondito, e superò benissimo l'esame severo della sua nettezza. Allora la signora Forbes tranciò un pezzo della murena, e diede ordine di continuare. Io inghiottii un secondo boccone sforzandomi molto. Mio fratello, invece, non prese neppure le posate. «Non la mangerò» disse. La sua risoluzione era così evidente, che la signora Forbes la schivò. «Va bene» disse, «ma non mangerai il dolce.» Il sollievo di mio fratello mi infuse il suo coraggio. Incrociai le posate sul piatto, così come la signora Forbes ci aveva insegnato che bisognava fare per finire, e dissi: «Neppure io mangerò il dolce.» «E neppure vedrete le televisione» replicò lei. «E neppure vedremo la televisione» dissi. La signora Forbes posò il tovagliolo sulla tavola, e tutt'e tre ci alzammo a pregare. Poi ci spedì in camera nostra, con l'avvertenza che dovevamo addormentarci nello stesso tempo che lei impiegava per finir di mangiare. Tutti i nostri punti buoni furono annullati, e solo a partire da venti avremmo di nuovo beneficiato dei suoi pasticcini alla crema, delle sue torte alla vaniglia, delle sue squisite crostate di prugne, di cui non avremmo conosciuto l'uguale nel resto delle nostre vite. Prima o poi dovevamo arrivare a quella rottura. Per un anno intero avevamo atteso con ansia quell'estate libera sull'isola di Pantelleria, all'estremità meridionale della Sicilia, ed era andata proprio così durante il primo mese, finché i nostri genitori erano rimasti con noi. Ricordo ancora come un sogno la pianura solare di rocce vulcaniche, il mare eterno, la casa dipinta di calce viva fino ai gradini di ingresso, dalle cui finestre si vedevano nelle notti senza vento le croci luminose dei fari d'Africa. Esplorando con mio padre i fondali addormentati intorno all'isola avevamo scoperto una fila di siluri gialli, incagliati lì dall'ultima guerra; avevamo recuperato un'anfora greca di quasi un metro d'altezza, con ghirlande pietrificate, nel cui fondo giacevano i residui di un vino immemore e velenoso, e avevamo fatto il bagno in una gora fumante, le cui acque erano così dense che vi si poteva quasi camminare sopra. Ma la scoperta più sconvolgente per noi era stata Fulvia Flaminea. Sembrava un vescovo felice, e girava sempre con una combriccola di gatti sonnacchiosi che la intralciavano nel camminare, ma lei diceva che non li sopportava per amore, quanto per impedire che i topi se la mangiassero. Di notte, mentre i nostri genitori guardavano alla televisione i programmi per adulti, Fulvia Flaminea ci portava con lei a casa sua, a meno di cento metri dalla nostra, e ci insegnava a distinguere le parlate remote, le canzoni, le raffiche di pianto dei venti di Tunisi. Suo marito era un uomo troppo giovane per lei, che lavorava durante l'estate negli alberghi turistici all'altra estremità dell'isola, e rincasava solo per dormire. Oreste abitava con i genitori un po' più lontano, e arrivava sempre di sera con filze di pesci e canestri di aragoste appena pescate, e le appendeva nella cucina affinché il marito di Fulvia Flaminea le vendesse il giorno dopo negli alberghi. Poi si risistemava la torcia da subacqueo sulla fronte e ci portava a cacciare i topi di montagna, grossi come conigli, che aspettavano i rifiuti delle cucine. Talvolta rincasavamo quando i nostri genitori si erano coricati, e riuscivamo a stento a dormire col chiasso dei topi che si contendevano gli avanzi nei cortili. Ma anche quel disturbo era un ingrediente magico della nostra estate felice. La decisione di assumere un'istitutrice tedesca era potuta venire in mente solo a mio padre, che era uno scrittore dei Caraibi, con più velleità che talento. Abbagliato dalle ceneri delle glorie d'Europa, era sempre parso troppo ansioso di farsi perdonare la sua origine, sia nei libri sia nella vita reale, e si era imposto la fantasia che non rimanesse nei figli alcuna traccia del suo passato. Mia madre continuò a essere sempre umile come lo era stata quando faceva la maestra errante nell'alta Guajira, e non si era mai immaginata che il marito potesse concepire un'idea che non fosse provvidenziale. Sicché nessuno dei due dovette domandarsi col cuore in mano come sarebbe stata la nostra vita con una sergentessa di Dortmund, impegnata a inculcarci a forza le abitudini più viete della società europea, mentre loro partecipavano con quaranta scrittori alla moda a una crociera culturale di cinque settimane nelle isole dell'Egeo. La signora Forbes era arrivata l'ultimo sabato di luglio col battello che faceva la spola da Palermo, e già al vederla per la prima volta ci rendemmo conto che la festa era finita. Arrivò con certi stivali da soldato, e un vestito a doppiopetto in quel caldo meridionale, e con i capelli tagliati come quelli di un uomo, sotto il cappellino di feltro. Puzzava di orina di micco: «E' la puzza degli europei, soprattutto d'estate» ci disse mio padre. «E' l'odore della civiltà.» Ma, a dispetto del suo abbigliamento marziale, la signora Forbes era una creatura misera, che forse ci avrebbe suscitato una certa compassione se fossimo stati più grandi o se lei avesse avuto qualche traccia di tenerezza. Il mondo si fece diverso. Le sei ore di mare, che dal principio dell'estate erano un continuo esercizio di immaginazione, divennero una sola ora sempre uguale, più volte reiterata. Quando eravamo con i nostri genitori disponevamo di tutto il tempo per nuotare con Oreste, meravigliati dall'arte e dall'audacia con cui affrontava i polipi nella loro acqua torbida di inchiostro e sangue, senza altre armi che i suoi coltelli da combattimento. Poi continuò ad arrivare alle undici con la barchetta dal motore fuori bordo, come faceva sempre, ma la signora Forbes non gli permetteva di fermarsi con noi neppure un minuto più dell'indispensabile per la lezione di nuoto sott'acqua. Ci proibì di tornare di notte a casa di Fulvia Flaminea, perché la considerava una familiarità eccessiva con la servitù, e si dovette dedicare alla lettura analitica di Shakespeare il tempo che prima impiegavamo cacciando topi. Abituati a rubare manghi nei cortili e a uccidere cani a colpi di mattone nelle strade ardenti di Guacamayal, per noi era impossibile concepire un tormento più crudele di quella vita da principi. Comunque, ben presto ci accorgemmo che la signora Forbes non era severa con se stessa come lo era con noi, e quella fu la prima crepa nella sua autorità. All'inizio rimaneva sulla spiaggia sotto il parasole colorato, vestita da guerra, intenta a leggere ballate di Schiller mentre Oreste ci insegnava a nuotare sott'acqua, e poi ci dava lezioni teoriche di buona condotta in società, per ore e ore, fino alla pausa del pranzo. Un giorno chiese a Oreste che la portasse con la barchetta a motore fino ai negozi per turisti degli alberghi, e tornò con un costume da bagno intero, nero e cangiante, come una pelle di foca, ma non entrò mai in acqua. Prendeva il sole sulla spiaggia mentre noi nuotavamo, e si asciugava il sudore con l'accappatoio, senza passare sotto la doccia, sicché di lì a tre giorni sembrava un'aragosta in carne viva e l'odore della sua civiltà era diventato irrespirabile. Le sue notti erano di liberazione. Fin dall'inizio del suo regime sentivamo che qualcuno camminava nel buio della casa, nuotando nel buio, e mio fratello si inquietò persino all'idea che fossero gli annegati erranti di cui tanto ci aveva parlato Fulvia Flaminea. Ben presto scoprimmo che era la signora Forbes, che passava la notte vivendo la sua vita reale di donna solitaria, che lei stessa si sarebbe censurata durante il giorno. Una mattina all'alba la scoprimmo in cucina, con la camicia da notte da collegiale, intenta a preparare i suoi dolci splendidi, con tutto il corpo impiastricciato di farina fino al viso, e a bere un bicchiere di porto con un disordine mentale che avrebbe causato lo scandalo dell'altra signora Forbes. Già allora sapevamo che dopo esserci coricati non se ne andava nella sua camera, ma scendeva a nuotare di nascosto, oppure rimaneva fino a molto tardi nel salotto, a guardare alla televisione senza audio i film proibiti ai minori, mentre mangiava torte intere e beveva anche una bottiglia del vino speciale che mio padre conservava con tanta attenzione per le occasioni memorabili. Contrariamente alle sue prediche, di austerità e compostezza, si rimpinzava a dismisura, con una sorta di passione sbrigliata. Poi la sentivamo parlare da sola nella sua camera, la sentivamo recitare nel suo tedesco melodioso frammenti completi di "Die Jungfrau von Orleans", la sentivamo cantare, la sentivamo singhiozzare nel letto fino all'alba, e poi compariva a colazione con gli occhi gonfi di lacrime, sempre più lugubre e autoritaria. Né mio fratello né io fummo mai più sventurati di allora, ma io ero disposto a sopportarla sino alla fine, perché sapevo che comunque la sua ragione avrebbe prevalso sulla nostra. Mio fratello, invece, l'affrontò con tutto l'impeto del suo carattere, e l'estate felice divenne per noi infernale. L'episodio della murena fu l'ultima goccia. Quella stessa notte, mentre sentivamo dal letto l'andirivieni incessante della signora Forbes nella casa addormentata, mio fratello liberò d'improvviso tutto il carico del rancore che stava marcendogli nell'anima. «La ucciderò» disse. Mi stupì, non tanto per la sua decisione, quanto per la casualità che io stavo pensando la stessa cosa dopo quella cena. Tuttavia, cercai di dissuaderlo. «Ti taglieranno la testa» gli dissi. «In Sicilia non c'è la ghigliottina» disse lui. «Inoltre nessuno saprà chi è stato.» Pensava all'anfora recuperata dalle acque, dove c'era ancora il sedimento del vino mortale. Mio padre lo conservava perché voleva farlo sottoporre a un'analisi più approfondita per chiarire la natura del veleno, non potendo essere il risultato del semplice trascorrere del tempo. Usarlo contro la signora Forbes era così facile, che nessuno avrebbe pensato che non si fosse trattato di un incidente o di suicidio. Sicché all'alba, quando la sentimmo cadere spossata dalla fragorosa veglia, versammo il vino dell'anfora nella bottiglia del vino speciale di mio padre. Come avevamo sentito dire, quella dose era sufficiente per ammazzare un cavallo. La colazione la facemmo in cucina alle nove in punto, servita dalla stessa signora Forbes con i panini dolci che Fulvia Flaminea lasciava molto presto sopra il focolare. Due giorni dopo aver sostituito il vino, mentre facevamo colazione, mio fratello mi fece notare con uno sguardo di delusione che la bottiglia avvelenata era intatta sulla credenza. Questo accadde un venerdì, e la bottiglia rimase intatta durante il finesettimana. Ma la notte del martedì, la signora Forbes se ne bevve la metà mentre guardava i film libertini della televisione. Tuttavia, arrivò puntuale come sempre alla colazione del mercoledì. Aveva la solita faccia da notte in bianco, e gli occhi erano ansiosi come sempre dietro le lenti massicce, e le divennero ancora più ansiosi quando trovò nel cestino dei panini una lettera con francobolli della Germania. La lesse mentre beveva il caffè, come tante volte ci aveva detto che non bisognava fare, e nel corso della lettura le passavano sul viso raffiche di chiarore che irraggiavano le parole scritte. Poi strappò i francobolli dalla busta e li mise nel cestino con i panini avanzati per la colazione del marito di Fulvia Flaminea. Malgrado la brutta esperienza iniziale, quel giorno ci accompagnò nell'esplorazione dei fondali marini, e restammo a divagare per un mare di acque magre finché non cominciò a esaurirsi l'ossigeno e tornammo a casa senza la lezione di buone maniere. La signora Forbes non solo fu d'animo floreale per tutto il giorno, ma all'ora di cena sembrava più vivace che mai. Mio fratello, dal canto suo, non poteva sopportare quella delusione. Appena ricevuto l'ordine di cominciare, scostò il piatto di pastina in brodo con un gesto provocatore. «Ne ho le palle piene di questa zuppa di lombrichi» disse. Fu come se avesse lanciato in tavola una granata da guerra. La signora Forbes divenne pallida, le sue labbra si irrigidirono finché non cominciò a svanire il fumo dell'esplosione, e i vetri delle sue lenti si appannarono di lacrime. Poi se li tolse, li asciugò col tovagliolo, e prima di alzarsi li posò sulla tavola con l'amarezza di una capitolazione senza gloria. «Fate come più vi piace» disse. «Io non esisto.» Si chiuse nella sua camera fin dalle sette. Ma prima della mezzanotte, quando ci credeva ormai addormentati, la vedemmo passare con la camicia da collegiale, che si portava in camera sua mezza torta di cioccolata e la bottiglia con oltre quattro dita del vino avvelenato. Ebbi un tremito di pietà. «Povera signora Forbes» dissi. Mio fratello non respirava tranquillo. «Poveri noi se non muore stanotte» disse. Quel mattino verso l'alba riprese a parlare da sola a lungo, declamò Schiller ad alta voce, ispirata da una pazzia frenetica, e culminò con un grido finale che occupò tutto lo spazio della casa. Poi sospirò più volte sino in fondo all'anima e crollò con un fischio triste e continuo come quello di una nave alla deriva. Quando ci svegliammo, ancora spossati dalla tensione della notte trascorsa, il sole si infilava a coltellate attraverso le persiane, ma la casa sembrava immersa in uno stagno. Allora ci rendemmo conto che dovevano essere le dieci e non eravamo stati svegliati secondo le consuetudini mattutine della signora Forbes. Non avevamo udito lo sciacquone del gabinetto, né il rubinetto del lavandino, né il rumore delle persiane, né i ferri degli stivali e i tre colpi mortali alla porta col palmo della sua mano da negriero. Mio fratello appiccicò l'orecchio al muro, trattenne il respiro per cogliere il minimo segno di vita nella stanza attigua, e infine cacciò un sospiro di liberazione. «Sistemata!» disse. «L'unica cosa che si sente è il mare.» Ci preparammo la colazione poco prima delle undici, e poi scendemmo alla spiaggia con due bombole di ossigeno a testa e altre due di scorta, prima che Fulvia Flaminea arrivasse con la sua combriccola di gatti a far le pulizie in casa. Oreste era già all'imbarcadero, intento a sbudellare un'orata di sei libbre che aveva appena catturato. Gli dicemmo che avevamo aspettato la signora Forbes fino alle undici, e visto che era sempre addormentata avevamo deciso di scendere da soli al mare. Gli raccontammo pure che la sera prima aveva avuto una crisi di pianto a tavola, e che forse aveva dormito male e aveva preferito rimanere a letto. A Oreste non interessò molto la spiegazione, proprio come ci aspettavamo, e ci accompagnò a vagabondare un po' più di un'ora per i fondali marini. Poi ci disse di salire a pranzare, e se ne andò sulla barchetta a motore a vendere l'orata agli alberghi dei turisti. Dalla scala di pietre lo salutammo con la mano, facendogli credere che stavamo per salire a casa, finché non fu scomparso dietro gli scogli. Allora ci sistemammo le bombole di ossigeno e continuammo a nuotare senza il permesso di nessuno. La giornata era nuvolosa e c'era un clamor di tuoni scuri all'orizzonte, ma il mare era liscio e diafano e la sua luce era già sufficiente. Nuotammo in superficie fino alla linea del faro di Pantelleria, svoltammo dopo un centinaio di metri a destra e ci immergemmo dove calcolavamo che avevamo visto i siluri da guerra all'inizio dell'estate. Erano sempre lì: sei, dipinti di giallo solare e con i numeri di serie intatti, e adagiati sul fondo vulcanico in un ordine così perfetto che non poteva essere casuale. Poi proseguimmo girando intorno al faro, in cerca della città sommersa di cui tanto e con tanta meraviglia ci aveva parlato Fulvia Flaminea, ma non riuscimmo a trovarla. Di lì a due ore, convinti che non c'erano nuovi misteri da scoprire, risalimmo in superficie con l'ultima boccata di ossigeno. Era esploso un temporale estivo mentre nuotavamo, il mare era mosso, e frotte di uccelli carnivori volavano con strida feroci sopra la scia di pesci moribondi sulla spiaggia. Ma la luce del pomeriggio sembrava appena creata, e la vita era bella senza la signora Forbes. Tuttavia, quando finimmo di salire con grande fatica su per la scala degli scogli, vedemmo molta gente in casa e due automobili della polizia davanti alla porta, e allora fummo per la prima volta consapevoli di quanto avevamo fatto. Mio fratello si mise a tremare e cercò di tornare indietro. «Io non entro» disse. Io, invece, ebbi l'ispirazione confusa che ci sarebbe bastato vedere il cadavere e saremmo stati in salvo da ogni sospetto. «Sta' tranquillo» gli dissi. «Respira profondamente, e pensa solo a una cosa: noi non ne sappiamo nulla.» Nessuno ci badò. Posammo le bombole di ossigeno, le maschere e le pinne, ed entrammo dalla veranda laterale, dove c'erano due uomini che fumavano seduti per terra accanto a una barella da campo. Allora ci rendemmo conto che c'era un'ambulanza davanti alla porta del retro e diversi militari armati di fucili. Nel salotto, le donne del vicinato pregavano in dialetto sedute sulle seggiole che erano state disposte contro la parete, e i loro uomini erano ammucchiati nel cortile a parlare di cose che nulla avevano a che vedere con la morte. Strinsi più forte la mano di mio fratello, che era dura e gelida, ed entrammo in casa dalla porta del retro. La nostra camera era aperta e nelle stesse condizioni in cui l'avevamo lasciata al mattino. In quella della signora Forbes, che veniva subito dopo, c'era un carabiniere armato sulla soglia, ma la porta stava aperta. Ci affacciammo all'interno col cuore oppresso, e ci rimase appena il tempo di farlo che Fulvia Flaminea uscì come una raffica dalla cucina e chiuse la porta con un grido di terrore: «Per l'amor di Dio, figlioli, non guardatela!» Era troppo tardi. Mai, nel resto della nostra vita, avremmo potuto dimenticare quanto vedemmo in quell'istante fugace. Due uomini in borghese stavano misurando la distanza dal letto alla parete con un metro a nastro, mentre un altro scattava fotografie con un apparecchio dalla pezza nera come quella dei fotografi dei parchi. La signora Forbes non stava sul letto disfatto. Era distesa a terra di fianco, nuda in una pozza di sangue secco che aveva completamente tinto il pavimento della stanza, e aveva il corpo crivellato da pugnalate. Erano ventisei ferite mortali, e dalla quantità e dall'accanimento si notava che erano state inferte con la furia di un amore senza quiete, e che la signora Forbes le aveva ricevute con la stessa passione, senza neppure gridare, senza piangere, recitando Schiller con la sua bella voce da soldato, consapevole che era il prezzo inesorabile della sua estate felice. 1976. La luce è come l'acqua. A Natale i bambini chiesero di nuovo una barca a remi. «D'accordo» disse il papà, «la compreremo quando faremo ritorno a Cartagena.» Totó, di nove anni, e Joel, di sette, erano più decisi di quanto i loro genitori credessero. «No» dissero in coro. «Ne abbiamo bisogno adesso e qui.» «Per cominciare» disse la madre, «qui l'unica acqua navigabile è quella che esce dalla doccia.» Sia lei sia il marito avevano ragione. Nella casa di Cartagena de Indias c'era un cortile con un molo sulla baia, e un attracco per due grossi yacht. Invece qui a Madrid vivevano stretti al quinto piano del numero 47 del Paseo de la Castellana. Ma alla fine né lui né lei avevano potuto rifiutare, perché avevano promesso loro una barca a remi col sestante e la bussola, se avessero ottenuto l'alloro della terza elementare, e l'avevano ottenuto. Sicché il papà comprò tutto senza dire nulla alla moglie, che era la più restia a pagare debiti di gioco. Era una bella barca di alluminio con un filo dorato sulla linea di galleggiamento. «La barca è nel garage» rivelò il papà durante il pranzo. «Il problema è che non c'è verso di portarla fin qui con l'ascensore né per le scale, e nel garage non c'è più spazio disponibile.» Tuttavia, il pomeriggio del sabato successivo i bambini invitarono i compagni affinché li aiutassero a trasportare la barca su per le scale, e arrivarono fino alla camera di servizio. «Complimenti» disse il papà. «E adesso che facciamo?» «Adesso nulla» dissero i bambini. «Volevamo solo avere la barca nella stanza, ed eccola lì.» La sera del mercoledì, come tutti i mercoledì, i genitori andarono al cinema. I bambini, padroni e signori della casa, chiusero porte e finestre, e ruppero la lampadina accesa di una lampada del salotto. Uno zampillo di luce dorata e fresca come l'acqua sgorgò dalla lampadina rotta, e lo lasciarono scorrere finché il livello non arrivò a quattro palmi. Allora interruppero la corrente, spinsero la barca, e navigarono con agio fra le isole della casa. Questa avventura favolosa fu il risultato di una mia leggerezza quando avevo partecipato a un seminario sulla poesia degli utensili domestici. Totó mi aveva domandato come mai per accendere la luce bastava pigiare un bottone, e io non avevo avuto il coraggio di pensarci due volte. «La luce è come l'acqua» gli avevo risposto: «si apre il rubinetto, ed esce». E così continuarono a navigare ogni mercoledì sera, imparando a maneggiare il sestante e la bussola, finché i genitori non tornavano dal cinema e li trovavano addormentati come angioletti di terra ferma. Mesi dopo, ansiosi di spingersi oltre, chiesero un equipaggiamento per la pesca subacquea. Completo: maschere, pinne, bombole di ossigeno e fucili ad aria compressa. «Non mi piace che teniate nella camera di servizio una barca a remi che non vi serve a nulla» disse il padre. «Ma il peggio è che volete pure equipaggiamenti da palombari.» «E se otteniamo la gardenia d'oro del primo semestre?» disse Joel. «No» disse la madre, spaventata. «Basta così.» Il padre le rimproverò la sua intransigenza. «E' che questi bambini non si guadagnano neppure un chiodo solo per compiere il loro dovere» disse lei, «ma per un capriccio sono capaci di guadagnarsi perfino la seggiola del maestro.» Alla fine i genitori non dissero né sì né no. Ma Totó e Joel, che erano stati gli ultimi nei due anni precedenti, in luglio ottennero le due gardenie d'oro e il riconoscimento pubblico del direttore. Quella stessa sera, senza che li avessero chiesti di nuovo, trovarono nella loro stanza gli equipaggiamenti da palombari nell'imballaggio originale. Sicché il mercoledì successivo, mentre i genitori vedevano "Ultimo tango a Parigi", riempirono l'appartamento fino all'altezza di due braccia, si immersero come squali docili sotto i mobili e i letti, e riscattarono dal fondo della luce le cose che per anni si erano perse nel buio. Alla premiazione finale i fratelli furono acclamati come esempio per la scolaresca, e consegnarono loro eccellenti diplomi. Questa volta non dovettero chiedere nulla, perché i genitori li interpellarono su cosa volevano. Furono così ragionevoli, che chiesero soltanto di fare una festa in casa insieme ai compagni. Il papà, da solo con la moglie, era raggiante. «E' una prova di maturità» disse. «Che Dio ti ascolti» disse la madre. Il mercoledì successivo, mentre i genitori vedevano "La battaglia di Algeri", la gente che passò per la Castellana vide una cascata di luce che ricadeva da un vecchio edificio nascosto fra gli alberi. Usciva dai balconi, si spargeva a fiotti sulla facciata, e si incanalò lungo l'ampio viale in un torrente dorato che illuminò la città fino al Guadarrama. Chiamati d'urgenza, i pompieri forzarono la porta del quinto piano, e trovarono la casa ricolma di luce fino al soffitto. Il divano e le poltrone ricoperte di pelle di leopardo galleggiavano nel salotto a diversi livelli, fra le bottiglie del bar e il pianoforte a coda col suo scialle di Manila che fluttuava a mezz'acqua come una medusa d'oro. Gli utensili domestici, nella pienezza della loro poesia, volavano con ali proprie nel cielo della cucina. Le finte armi da guerra, che i bambini usavano per ballare, galleggiavano alla deriva fra i pesci variopinti liberati dall'acquario della mamma, ed erano gli unici che nuotavano vivi e felici nella vasta palude illuminata. Nel bagno galleggiavano gli spazzolini da denti di tutti, i preservativi del papà, le boccette di crema e la dentiera di ricambio della mamma, e il televisore della camera da letto principale galleggiava di sghembo, ancora acceso sull'ultimo episodio del film di mezzanotte proibito ai bambini. In fondo al corridoio, sulla superficie dell'acqua, Totó era seduto a poppa della barca, stringendo i remi e con la maschera infilata, cercando il faro del porto fin dove gli bastò l'aria della bombola, e Joel galleggiava a prua cercando ancora l'altezza della stella polare col sestante, e galleggiavano per tutta la casa i loro trentasette compagni di classe, eternizzati nell'istante di far la pipì nel vaso dei gerani, di cantare l'inno della scuola col testo cambiato in versi di burla contro il direttore, di bere di nascosto un bicchiere di brandy dalla bottiglia del papà. Avevano aperto così tante luci al contempo che la casa era traboccata, e tutta la quarta classe della scuola elementare di San Julián el Hospitalario era annegata al quinto piano del numero 47 del Paseo de la Castellana. A Madrid, in Spagna, una città remota dalle estati infuocate e dai venti gelidi, senza mare né fiume, e i cui aborigeni di terra ferma non sono mai stati maestri nella scienza di navigare nella luce. dicembre 1978. La traccia del tuo sangue sulla neve. All'imbrunire, quando arrivarono alla frontiera, Nena Daconte si accorse che il dito con l'anello matrimoniale continuava a sanguinarle. Il poliziotto con una coperta di lana grezza sul tricorno di vernice esaminò i passaporti alla luce di una lanterna a carburo, facendo un grande sforzo per non essere travolto dalla pressione del vento che soffiava dai Pirenei. Pur trattandosi di due passaporti diplomatici in regola, il poliziotto sollevò la lanterna per controllare che le fotografie somigliassero alle facce. Nena Daconte era quasi una bambina, con certi occhi da uccello felice e una pelle di melassa che irraggiava ancora il solleone dei Caraibi nel lugubre imbrunire di gennaio, ed era avvolta fino al collo in una pelliccia di visone che non si sarebbe potuta comprare con lo stipendio di un anno di tutta la guarnigione della frontiera. Billy Sánchez de Avila, suo marito, che guidava la macchina, era di un anno più giovane, e quasi altrettanto bello, e indossava una giacca a quadri scozzesi e un berretto da baseball. Contrariamente alla moglie, era alto e atletico e aveva la mascella di ferro dei bellimbusti timidi. Ma quel che meglio rivelava la condizione di entrambi era l'automobile platinata il cui interno esalava un respiro di bestia viva, come non se n'erano viste su quella frontiera di poveri. I sedili posteriori erano zeppi di valigie troppo nuove e molte scatole di regali ancora da aprire. C'era, inoltre, il sassofono tenore che era stato la passione dominante nella vita di Nena Daconte prima che soccombesse all'amore contrastato del suo tenero organizzatore di combriccole da spiaggia. Quando il poliziotto gli ebbe restituito i passaporti timbrati, Billy Sánchez domandò dove potevano trovare una farmacia per medicare il dito della moglie, e il poliziotto gli gridò controvento che domandassero a Hendaye, dalla parte francese. Ma i poliziotti di Hendaye erano seduti intorno al tavolo in maniche di camicia, intenti a giocare a carte mentre mangiavano pane inzuppato in tazzoni di vino dentro una garitta di vetro calda e ben illuminata, e bastò loro vedere le dimensioni e la marca della macchina per far segno che entrassero pure in Francia. Billy Sánchez fece risuonare più volte il clacson, ma i poliziotti non capirono che stavano chiamandoli e uno di loro aprì il vetro e gridò con rabbia maggiore del vento: «"Merde! Allez-vous-en"!» Allora Nena Daconte uscì dall'automobile avvolta nella pelliccia fino alle orecchie, e domandò al poliziotto in un francese perfetto dov'era una farmacia. Il poliziotto rispose per abitudine con la bocca piena di pane che non era cosa di sua competenza, tanto meno con una simile burrasca, e chiuse il finestrino. Ma poi fissò con attenzione la ragazza che si succhiava il dito ferito avvolta nello scintillio dei visoni naturali, e dovette confonderla con un'apparizione magica in quella notte da tregenda, perché subito cambiò umore. Spiegò che la città più vicina era Biarritz, ma che in pieno inverno e con quel vento da lupi forse non si sarebbe trovata una farmacia aperta fino a Bayonne, un po' più avanti. «E' una cosa grave?» domandò. «Nulla» sorrise Nena Daconte, mostrandogli il dito con l'anello di diamanti sul cui polpastrello era appena percettibile la ferita della rosa. «E' solo una puntura.» Prima di Bayonne riprese a nevicare. Non erano ancora le sette, ma trovarono le vie deserte e le case sbarrate dalla furia della tormenta, e dopo molti giri senza scoprire una farmacia decisero di proseguire. Billy Sánchez si rallegrò dinanzi a quella decisione. Aveva una passione insaziabile per le automobili rare e un padre con troppi sensi di colpa e soldi in abbondanza per compiacerlo, e non aveva mai guidato nulla di simile a quella Bentley convertibile regalata per le nozze. Era tale la sua ebbrezza al volante che più avanzava e meno stanco si sentiva. Era pronto ad arrivare quella notte a Bordeaux, dove avevano prenotato la suite nuziale all'Hotel Splendid, e non ci sarebbero stati venti contrari ne sufficiente neve in cielo per impedirglielo. Nena Daconte, invece, era esausta, soprattutto per via dell'ultimo tratto di strada dopo Madrid, che era un cornicione da capre frustato dalla grandine. Sicché dopo Bayonne si arrotolò un fazzoletto intorno all'anulare serrandolo bene per fermare il sangue che continuava a uscire, e si addormentò profondamente. Billy Sánchez se ne accorse solo verso mezzanotte, dopo che aveva finito di nevicare e il vento era d'improvviso calato fra i pini e il cielo delle lande si era riempito di stelle glaciali. Era passato davanti alle luci addormentate di Bordeaux, ma si era fermato solo per fare il pieno a un distributore lungo la strada, perché gli rimaneva ancora forza per arrivare fino a Parigi senza riprendere fiato. Era così felice del suo grosso giocattolo da venticinquemila sterline che non si domandò neppure se lo sarebbe stata la creatura radiosa che gli dormiva accanto con la benda all'anulare inzuppata di sangue, e il cui sonno di adolescente, per la prima volta, era attraversato da raffiche di incertezza. Si erano sposati tre giorni prima, a diecimila chilometri di lì, a Cartagena de Indias, dinanzi allo stupore dei genitori di lui e alla delusione di quelli di lei, e con la benedizione personale dell'arcivescovo primate. Nessuno, tranne loro due, capiva il fondamento reale né conobbe l'origine di quell'amore imprevedibile. Era cominciato tre mesi prima delle nozze, una domenica al mare in cui la cricca di Billy Sánchez aveva preso d'assalto gli spogliatoi femminili dei bagni di Marbella. Nena Daconte aveva appena compiuto diciotto anni, era tornata da poco dal collegio della Châtellerie, a Saint-Blaise, in Svizzera, parlando quattro lingue senza accento e con un dominio perfetto del sassofono tenore, e quella era la sua prima domenica al mare dopo il ritorno. Si era completamente spogliata per infilarsi il costume quando cominciarono l'esplosione di panico e le grida di abbordaggio nelle cabine accanto, ma non capì cosa succedeva finché il pannello della sua porta non si aprì in mille schegge e vide dritto davanti a sé il bandito più bello che si potesse immaginare. L'unica cosa che portava addosso era un esiguo slip di finta pelle di leopardo, e aveva il corpo placido ed elastico e il colore dorato della gente di mare. Sul pugno del braccio destro, dove aveva un bracciale metallico da gladiatore romano, teneva arrotolata una catena di ferro che gli serviva da arma mortale, e appesa al collo una medaglia senza santo che palpitava in silenzio sullo spavento del suo cuore. Avevano frequentato insieme le scuole elementari e avevano rotto molte pignatte alle feste di compleanno, perché entrambi appartenevano alla stirpe provinciale che disponeva a suo piacere del destino della città fin dai tempi della colonia, ma avevano smesso di vedersi da così tanti anni che a prima vista non si riconobbero. Nena Daconte rimase in piedi, immobile, senza far nulla per nascondere la sua nudità intensa. Billy Sánchez eseguì allora il suo rito puerile: si abbassò lo slip di leopardo e le mostrò il suo rispettabile animale eretto. Lei lo guardò fisso e senza paura. «Ne ho visti di più lunghi e di più grossi» disse, dominando il terrore. «Sicché pensa bene a cosa farai, perché con me devi comportarti meglio di un negro.» In realtà, Nena Daconte non solo era vergine, ma fino allora non aveva mai visto un uomo nudo, però la sfida si rivelò efficace. L'unica cosa che a Billy Sánchez venne in mente di fare fu tirare un pugno di rabbia contro la parete con la catena arrotolata intorno alla mano, e si incrinò le ossa. Lei lo portò con la sua macchina all'ospedale, e lo aiutò a sopportare la convalescenza, e infine impararono insieme a far l'amore con buona intesa. Passarono i pomeriggi difficili di giugno sulla terrazza interna della casa dove erano morte sei generazioni di patrizi della famiglia di Nena Daconte, lei suonando canzoni alla moda col sassofono, e lui con la mano ingessata contemplandola dall'amaca con uno stupore senza sollievo. La casa aveva numerose finestre ad altezza d'uomo che davano sullo stagno di marciume della baia, ed era una delle più grandi e antiche del quartiere di La Manga, e sicuramente la più brutta. Ma la terrazza dalle piastrelle a scacchiera dove Nena Daconte suonava il sassofono era una gora nel caldo delle quattro, e dava su un cortile dalle ombre grandi con manghi e banani, sotto i quali c'era una tomba con una lapide senza nome, precedente la casa e la memoria della famiglia. Persino i meno esperti in musica pensavano che il suono del sassofono era anacronistico in una casa di tale rango. «Fischia come un battello» aveva detto la nonna di Nena Daconte quando l'aveva sentito per la prima volta. Sua madre aveva tentato invano di far sì che lo suonasse altrimenti, e non come lei faceva per comodità, con la sottana rialzata fino alle cosce e le ginocchia divaricate, e con una sensualità che non le sembrava essenziale per la musica. «Non mi importa quale strumento suoni» le diceva, «purché lo suoni a gambe chiuse.» Ma furono quelle arie da addii di battello e quell'accanimento d'amore a permettere a Nena Daconte di spezzare il guscio amaro di Billy Sánchez. Sotto la triste reputazione di bullo che lui aveva ben sorretta dalla confluenza di due nomi illustri, lei scoprì un orfano spaventato e tenero. Arrivarono a conoscersi tanto mentre gli si rinsaldavano le ossa della mano, che lui stesso si stupì della fluidità con cui sopraggiunse l'amore quando lei lo portò nel suo letto di signorina in un pomeriggio di piogge in cui erano rimasti soli in casa. Tutti i giorni a quell'ora, per quasi due settimane, ruzzarono nudi sotto lo sguardo attonito dei ritratti di guerrieri civili e nonne insaziabili che li avevano preceduti nel paradiso di quel letto storico. Anche nelle pause dell'amore rimanevano nudi con le finestre aperte a respirare la brezza di relitti di barche della baia, il suo odore di merda, e ad ascoltare nel silenzio del sassofono i rumori quotidiani del cortile, la nota unica del rospo sotto i banani, la goccia d'acqua sulla tomba di nessuno, i passi naturali della vita che prima non avevano avuto il tempo di conoscere. Quando i genitori di Nena Daconte tornarono a casa, loro avevano progredito tanto nell'amore che il mondo aveva posto solo per quello, e lo facevano a qualsiasi ora e da qualsiasi parte, cercando di inventarlo un'altra volta ogni volta che lo facevano. All'inizio lo fecero come meglio potevano nelle macchine sportive con cui il padre di Billy Sánchez tentava di acquietare le proprie colpe. Poi, quando le macchine divennero per loro troppo facili, si infilavano di notte nelle cabine deserte di Marbella dove il destino li aveva messi l'uno dinanzi all'altra per la prima volta, e durante il carnevale si infilarono mascherati persino nelle camere d'affitto dell'antico quartiere degli schiavi di Getsemaní, sotto la protezione delle ruffiane che sino a pochi mesi prima dovevano sorbirsi Billy Sánchez con la sua banda di metallari. Nena Daconte si abbandonò agli amori furtivi con la stessa devozione frenetica che prima sprecava col sassofono, al punto che il suo bandito addomesticato fini per capire quel che lei volle dirgli quando gli disse che doveva comportarsi come un negro. Billy Sánchez le corrispose sempre e bene e con lo stesso entusiasmo. Ormai sposati, compirono il dovere di amarsi mentre le hostess dormivano in mezzo all'Atlantico, laboriosamente chiusi e morti più dal ridere che di piacere nel gabinetto dell'aereo. Solo loro sapevano allora, ventiquattro ore dopo le nozze, che Nena Daconte era incinta da due mesi. Sicché quando arrivarono a Madrid si sentivano molto lontani dall'essere due amanti sazi, ma avevano sufficienti scorte per comportarsi come due sposini puri. I genitori di entrambi avevano previsto tutto. Prima dello sbarco, un funzionario di protocollo salì nello scompartimento di prima classe per portare a Nena Daconte la pelliccia di visone bianco con frange di un nero luminoso, che era il regalo di nozze dei suoi genitori. A Billy Sánchez portò un giaccone di pelle che era la novità di quell'inverno, e le chiavi senza marca di una macchina a sorpresa che lo aspettava all'aeroporto. La delegazione diplomatica del loro paese li accolse nel salone ufficiale. L'ambasciatore e sua moglie non solo erano amici da sempre della famiglia di entrambi, ma lui era pure il medico che aveva assistito alla nascita di Nena Daconte, e l'attese con un mazzo di rose così raggianti e fresche che persino le gocce di rugiada sembravano artificiali. Lei li salutò entrambi con baci da burla, a disagio nel suo ruolo un po' prematuro di sposina, e poi accettò le rose. Mentre le prendeva si punse il dito con una spina del gambo, ma risolse la situazione con un espediente affascinante. «L'ho fatto apposta« disse, «affinché si notasse il mio anello.» Infatti, la delegazione diplomatica al completo ammirò lo splendore dell'anello, che doveva costare una fortuna, non tanto per il tipo dei diamanti quanto per la loro antichità ben conservata. Ma nessuno notò che il dito cominciava a sanguinare. L'attenzione di tutti si spostò poi verso la macchina nuova. L'ambasciatore era stato così spiritoso da portarla all'aeroporto e da farla avvolgere nel cellophane con un enorme nastro dorato. Billy Sánchez non apprezzò la sua finezza. Era così ansioso di conoscere la macchina che lacerò l'involucro con uno strappo e rimase senza fiato. Era la Bentley convertibile di quell'anno con tappezzeria di vero cuoio. Il cielo sembrava un manto di cenere, il Guadarrama mandava un vento tagliente e gelido, e non si stava bene all'aperto, ma Billy Sánchez non sapeva ancora cos'era il freddo. Tenne la delegazione diplomatica nel parcheggio senza tetto, inconsapevole del fatto che stavano congelandosi per cortesia, finché non ebbe finito di conoscere la macchina nei suoi dettagli più reconditi. Poi, l'ambasciatore gli si sedette accanto per guidarlo fino alla residenza ufficiale in cui era previsto un pranzo. Durante il tragitto gli indicò i luoghi più noti della città, ma lui sembrava attento solo alla magia della macchina. Era la prima volta che si allontanava dalla sua terra. Era passato per tutte le scuole private e pubbliche, ripetendo sempre la stessa classe, finché era rimasto a galleggiare in un limbo di disamore. La prima visione di una città diversa dalla sua, i blocchi di case cinerognole con le luci accese in pieno giorno, gli alberi spelati, il mare distante, tutto accresceva in lui una sensazione di abbandono che si sforzava di tenere al margine del cuore. Comunque, di lì a poco cadde senza accorgersene nella prima trappola dell'oblio. Era sopraggiunta una tormenta istantanea e silenziosa, la prima della stagione, e quando uscirono dalla casa dell'ambasciatore dopo il pranzo, per intraprendere il viaggio per la Francia, trovarono la città coperta da una neve raggiante. Billy Sánchez dimenticò allora la macchina, e in presenza di tutti, cacciando grida di giubilo e buttandosi manciate di neve in testa, si rotolò in mezzo alla strada col giaccone addosso. Nena Daconte si accorse per la prima volta che il dito stava sanguinandole, quando abbandonarono Madrid in un pomeriggio che era diventato diafano dopo la tormenta. Si stupì, perché aveva accompagnato col sassofono la moglie dell'ambasciatore, cui piaceva cantare arie d'opera in italiano dopo i pranzi ufficiali, e aveva appena notato il fastidio all'anulare. Poi, mentre indicava al marito le strade più brevi per la frontiera, si succhiava il dito in maniera inconsapevole ogni volta che le sanguinava, e solo quando furono arrivati ai Pirenei pensò di cercare una farmacia. Poi aveva ceduto al sonno rinviato degli ultimi giorni, e quando d'improvviso si svegliò con l'impressione da incubo che la macchina procedesse sull'acqua, per un bel po' non si ricordò più del fazzoletto annodato intorno al dito. Vide sull'orologio luminoso del quadro che erano le tre passate, fece i suoi calcoli mentali, e solo allora capì che avevano superato di un bel pezzo Bordeaux, e anche Angoulême e Poitiers, e che stavano passando per la diga della Loira inondata dalla piena. Il fulgore della luna filtrava attraverso la nebbia, e le sagome dei castelli fra i pini sembravano da racconti di fate. Nena Daconte, che conosceva la regione a memoria, calcolò che si trovavano ormai a circa tre ore da Parigi, e Billy Sánchez era sempre impavido al volante. «Sei un irresponsabile» gli disse. «Sono più di undici ore che guidi senza mangiare nulla.» Era ancora sorretto dall'ebbrezza della macchina nuova. Pur avendo dormito poco e male sull'aereo, si sentiva vispo e più che mai in forze per arrivare a Parigi all'alba. «Mi dura ancora il pranzo dell'ambasciata» disse. E aggiunse senza alcuna logica: «In fin dei conti, a Cartagena stanno appena uscendo dal cinema. Lì devono essere le dieci». Tuttavia, Nena Daconte temeva che si addormentasse guidando. Aprì una scatola fra i tanti regali che avevano ricevuto a Madrid e cercò di mettergli in bocca un pezzo di arancia candita. Ma lui si sottrasse. «Gli uomini non mangiano dolci» disse. Poco prima di Orléans svanì la nebbia, e una luna grandissima illuminò i vivai coperti di neve, ma il traffico si fece più difficile per via dell'affluenza degli enormi camion di legumi e delle cisterne di vino che si dirigevano a Parigi. Nena Daconte avrebbe voluto aiutare il marito al volante, ma non si azzardò neppure a insinuarlo, perché lui l'aveva avvertita fin dalla prima volta che erano usciti insieme che non c'è umiliazione maggiore per un uomo che lasciar guidare la moglie. Si sentiva lucida dopo quasi cinque ore di buon sonno, e inoltre era contenta di non essersi fermata in un albergo della provincia francese, che conosceva fin da bambina in numerosi viaggi con i genitori. «Non ci sono paesaggi più belli al mondo» diceva, «ma uno può morire di sete senza trovare anima viva che gli dia gratis un bicchiere d'acqua.» Ne era così convinta che all'ultimo momento aveva messo una saponetta e un rotolo di carta igienica nella valigetta, perché negli alberghi francesi non c'era mai sapone, e la carta dei gabinetti erano i giornali della settimana precedente tagliati a quadratini e infilati in un gancio. L'unica cosa che rimpiangeva in quel momento era aver sprecato una notte intera senza amore. La risposta del marito fu immediata. «Proprio ora stavo pensando che deve essere una favola scopare in mezzo alla neve» disse. «Facciamolo qui, se ti va.» Nena Daconte ci pensò seriamente. Al bordo della strada, la neve sotto la luna aveva un aspetto soffice e caldo, ma a mano a mano che si avvicinavano ai sobborghi di Parigi il traffico era più fitto, e c'erano nuclei di fabbriche illuminate e numerosi operai in bicicletta. Se non fosse stato inverno, sarebbe già stato pieno giorno. «Ormai è meglio aspettare fino a Parigi» disse Nena Daconte. «Al calduccio e dentro un letto con le lenzuola pulite come la gente sposata.» «E' la prima volta che mi dici di no» disse lui. «Certo» replicò lei. «E' la prima volta che siamo sposati.» Poco prima dell'alba si lavarono la faccia e orinarono in una locanda per strada, e presero caffè con croissant caldi al banco dove i camionisti facevano colazione con vino rosso. Nena Daconte si era accorta nel bagno che aveva macchie di sangue sulla camicetta e sulla sottana, ma non cercò di lavarle. Buttò nella spazzatura il fazzoletto inzuppato, si trasferì l'anello matrimoniale sulla mano sinistra e si lavò per bene il dito ferito con acqua e sapone. La puntura era quasi invisibile. Tuttavia appena tornati in macchina riprese a sanguinare, sicché Nena Daconte lasciò il braccio penzolante fuori dal finestrino, convinta che l'aria glaciale dei vivai avesse virtù cauterizzanti. Fu un altro espediente vano, ma ancora non si allarmò. «Se qualcuno volesse trovarci sarebbe facilissimo» disse col suo fascino naturale. «Gli basterebbe seguire la traccia del mio sangue sulla neve!» Poi pensò meglio a quanto aveva detto, e il suo viso fiorì nelle prime luci dell'alba. «Immagina» disse: «una traccia di sangue sulla neve da Madrid fino a Parigi. Non ti sembra bello per una canzone?» Non ebbe il tempo di ripensarci. Ai sobborghi di Parigi, il dito era una sorgente incontenibile, e lei sentì davvero che l'anima stava uscendole dalla ferita. Aveva tentato di interrompere il flusso col rotolo di carta igienica che portava nella valigetta, ma ci metteva più tempo a bendarsi il dito che a buttar via dal finestrino i pezzi di carta insanguinata. Gli abiti che indossava, la pelliccia, i sedili della macchina, stavano infradiciandosi a poco a poco, ma in maniera irreparabile. Billy Sánchez si spaventò sul serio e insistette per cercare una farmacia, ma lei allora già sapeva che quello non era un problema per farmacisti. «Siamo quasi alla Porte d'Orléans» disse. «Continua dritto, per Avenue du Général Leclerc, che è la più larga e con molti alberi, e poi io ti dirò quel che devi fare.» Fu il tratto più arduo di tutto il viaggio. L'Avenue du Général Leclerc era un groviglio infernale di automobili piccole e motociclette, imbottigliate nei due sensi, e di camion enormi che tentavano di arrivare ai mercati centrali. Billy Sánchez si innervosì talmente allo strepito inutile dei clacson che gridando si insultò in lingua da metallari con diversi autisti e cercò persino di scendere dalla macchina per picchiarsi con uno, ma Nena Daconte riuscì a convincerlo che i francesi erano le persone più grossolane del mondo, ma che non si picchiavano mai. Fu un'altra prova del suo buonsenso, perché in quel momento Nena Daconte stava facendo sforzi per non perdere coscienza. Solo per uscire dall'incrocio di Léon de Belfort ebbero bisogno di oltre un'ora. I caffè e i negozi erano illuminati come se fosse stata mezzanotte, perché era un martedì tipico del gennaio di Parigi, coperto e sporco, e con una pioviggine tenace che non riusciva a tradursi in neve. Ma l'Avenue Denfer-Rochereau era più sgombra, e dopo pochi isolati Nena Daconte indicò al marito di girare a destra, e lui parcheggiò davanti all'entrata del pronto soccorso di un ospedale enorme e cupo. Dovette essere aiutata per uscire dalla macchina, ma non perse la serenità né la lucidità. Mentre arrivava il medico di turno, distesa sulla barella a ruote, rispose a tutte le consuete domande dell'infermiera sulla sua identità e sui precedenti della sua salute. Billy Sánchez le portò la borsetta e le strinse la mano sinistra dove allora aveva l'anello matrimoniale, e la sentì languida e fredda, e le sue labbra avevano perso il colore. Le rimase accanto, con la mano nella sua, finché non arrivò il medico di turno e le fece un controllo rapido all'anulare ferito. Era un uomo molto giovane, con la pelle color del rame antico e la testa pelata. Nena Daconte non gli prestò attenzione, ma rivolse al marito un sorriso livido. «Non spaventarti» gli disse, col suo umorismo indomabile. «L'unica cosa che può capitare è che questo cannibale mi tagli la mano per mangiarsela.» Il medico termino il suo esame, e allora li sorprese con uno spagnolo correttissimo, sebbene dallo strano accento asiatico: «No, ragazzi» disse. «Questo cannibale preferisce morire di fame piuttosto che tagliare una mano così bella.» Loro si rabbuiarono, ma il medico li tranquillizzò con un gesto amabile. Poi ordinò che portassero via la barella, e Billy Sánchez volle andare con lei, tenendo stretta la mano della moglie. Il medico lo arrestò prendendolo per un braccio. «Lei no» gli disse. «Va agli interventi d'urgenza.» Nena Daconte sorrise di nuovo al marito, e continuò a salutarlo con la mano finché la barella non si perse in fondo al corridoio. Il medico indugiò a studiare i dati che l'infermiera aveva scritto su una scheda. Billy Sánchez lo chiamò. «Dottore» gli disse. «E' incinta.» «Di quanto?» «Due mesi.» Il medico non gli diede l'importanza che Billy Sánchez si aspettava. «Ha fatto bene a dirmelo» disse, e si avviò dietro la barella. Billy Sánchez rimase lì fermo nella sala lugubre che puzzava di sudore di malati, rimase lì senza sapere cosa fare guardando il corridoio vuoto da dove avevano portato via Nena Daconte, e poi si sedette sulla panca di legno dove c'erano altre persone in attesa. Non seppe per quanto tempo restò lì, ma quando decise di uscire dall'ospedale era di nuovo notte e continuava la pioviggine, e lui era sempre ignaro persino di che far di se stesso, oppresso dal peso del mondo. Nena Daconte entrò alle 9.30 di martedì 7 gennaio, secondo quanto riuscii a constatare anni dopo negli archivi dell'ospedale. Quella prima notte Billy Sánchez dormì nella macchina parcheggiata davanti alla porta del pronto soccorso, e molto presto, il giorno dopo, si mangiò sei uova sode e due tazze di caffelatte al bar che trovò più vicino, perché non aveva fatto un pasto completo dopo Madrid. Poi tornò nella sala del pronto soccorso per vedere Nena Daconte, ma gli fecero capire che doveva rivolgersi all'entrata principale. Lì trovò, infine, un asturiano del servizio che lo aiutò a intendersi col portiere, e questi constatò che, in effetti, Nena Daconte era registrata all'ospedale, ma che si permettevano visite solo il martedì, dalle nove alle quattro. Ossia, di lì a sei giorni. Cercò di vedere il medico che parlava spagnolo e lo descrisse come un moro con la testa pelata, ma nessuno seppe cosa dirgli con due dettagli così semplici. Tranquillizzato dalle notizie secondo cui Nena Daconte compariva nel registro, tornò al posto dove aveva lasciato la macchina, e un agente del traffico lo costrinse a parcheggiare due isolati più avanti, in una via strettissima e dalla parte dei numeri dispari. Sul marciapiede di fronte c'era un edificio restaurato con un'insegna: Hotel Nicole. Aveva una sola stella, e un atrio molto piccolo dove non c'erano che un divano e un vecchio pianoforte verticale, ma il proprietario, con voce flautata, riusciva a intendersi con i clienti di qualsiasi lingua a patto che fossero in grado di pagare. Billy Sánchez si installò con undici valigie e nove scatole di regali nell'unica stanza libera, che era una mansarda triangolare al nono piano, cui si arrivava senza fiato per una scala a spirale che sapeva di schiuma di cavolfiori bolliti. Le pareti erano tappezzate con carte tristi e dall'unica finestra non entrava che la luce torbida del cortile interno. C'erano un letto doppio, un armadio grande, una seggiola semplice, un bidet portatile e un portacatino con la sua brocca, sicché l'unico modo per stare dentro la camera era coricarsi sul letto. Tutto era, più che vecchio, derelitto, ma anche pulitissimo, e con una traccia salutare di disinfettante passato da poco. La vita non sarebbe bastata a Billy Sánchez per decifrare gli enigmi di quel mondo fondato sul talento della spilorceria. Non capì mai il mistero della luce della scala che si spegneva prima che lui fosse arrivato al suo piano, né scoprì il modo per riaccenderla. Ebbe bisogno di mezza mattina per imparare che su ogni pianerottolo c'era una stanzetta con un gabinetto a sciacquone, e aveva ormai deciso di usarlo nelle tenebre quando scoprì per caso che la luce si accendeva tirando il chiavistello all'interno, affinché nessuno la lasciasse accesa per dimenticanza. La doccia, che era all'altra estremità del corridoio e che lui si ostinava a usare due volte al giorno come al suo paese, si pagava a parte e in contanti, e l'acqua calda, controllata dall'amministrazione, finiva dopo tre minuti. Tuttavia, Billy Sánchez ebbe abbastanza comprendonio per capire che quell'ordine così diverso dal suo era comunque migliore dell'inclemenza di gennaio, e poi si sentiva così confuso e solo che non riusciva a capire come un tempo avesse potuto vivere senza la protezione di Nena Daconte. Non appena fu salito nella camera, la mattina del mercoledì, si buttò a pancia in giù sul letto col giaccone addosso, pensando alla creatura da prodigio che stava dissanguandosi sul marciapiede di fronte, e ben presto cedette a un sonno così naturale che quando si svegliò erano le cinque all'orologio, ma non riuscì a dedurre se fossero le cinque del pomeriggio o del mattino, né di quale giorno della settimana né in quale città dai vetri frustati dal vento e dalla pioggia. Attese sveglio sul letto, sempre pensando a Nena Daconte, finché constatò che in realtà albeggiava. Allora si recò a far colazione nello stesso bar del giorno prima, e lì seppe che era giovedì. Le luci dell'ospedale erano accese e aveva smesso di piovere, sicché rimase appoggiato al tronco di un castagno davanti all'entrata principale, da dove entravano e uscivano medici e infermiere in camice bianco, con la speranza di trovare il medico asiatico che aveva accolto Nena Daconte. Non lo vide, e neppure quel pomeriggio dopo il pranzo, quando dovette interrompere l'attesa perché stava congelandosi. Alle sette prese ancora caffelatte e mangiò due uova sode che lui stesso si servì dal banco dopo quarantott'ore che stava mangiando sempre la stessa cosa nello stesso posto. Quando tornò in albergo per coricarsi trovò la sua macchina sola su un marciapiede e tutte le altre sul marciapiede di fronte, e c'era il foglietto di una multa sul parabrezza. Il portinaio dell'Hotel Nicole faticò a spiegargli che nei giorni dispari del mese si poteva parcheggiare sul marciapiede dai numeri dispari, e il giorno successivo sul marciapiede opposto. Tutte quelle trappole razionaliste erano incomprensibili per un autentico Sánchez de Avila, che solo due anni prima si era cacciato dentro un cinema di quartiere con l'automobile ufficiale del sindaco, e aveva causato scempi di morte dinanzi ai poliziotti impavidi. Capì ancora meno quando il portiere dell'albergo gli consigliò di pagare la multa, ma di non spostare la macchina a quell'ora, perché avrebbe dovuto spostarla di nuovo a mezzanotte. Quella mattina all'alba, per la prima volta, non solo pensò a Nena Daconte, ma si rigirava nel letto senza riuscire ad addormentarsi, rammentando le sue notti di afflizione nei ritrovi per culattoni del mercato pubblico di Cartagena dei Caraibi. Si ricordava del sapore del pesce fritto e del riso al cocco nelle trattorie del molo dove attraccavano le golette di Aruba. Si ricordò della sua casa dai muri ricoperti di trinitarie, dove erano solo le sette della sera di ieri, e vide suo padre con un pigiama di seta che leggeva il giornale nel fresco della terrazza. Si ricordò di sua madre, che non si sapeva mai dove si trovava a qualsiasi ora, sua madre appetitosa e ciarliera, con un vestito della domenica e una rosa all'orecchio fin dall'imbrunire, che soffocava di caldo per l'impiccio delle sue stoffe splendide. Un pomeriggio quando lui aveva sette anni, era entrato d'improvviso nella camera di lei e l'aveva sorpresa nuda nel letto con uno dei suoi amanti casuali. Quell'incidente, di cui non avevano mai parlato, instaurò fra loro un rapporto di complicità che era più utile dell'amore. Comunque, lui non fu consapevole di questo, né di tante cose terribili della sua solitudine di figlio unico, fino a quella notte in cui si trovò a rigirarsi nel letto di una mansarda triste di Parigi, senza nessuno cui raccontare la sua sventura, e con una rabbia feroce contro se stesso perché non riusciva a trattenere la voglia di piangere. Fu un'insonnia proficua. Il venerdì si alzò distrutto dalla nottataccia, ma deciso a definire la propria vita. Si risolse infine a violare la serratura della valigia per cambiarsi d'abito, visto che le chiavi erano tutte nella borsetta di Nena Daconte, con la maggior parte del denaro e l'agenda dei numeri di telefono in cui avrebbe forse trovato qualche conoscente di Parigi. Nel solito bar si rese conto che aveva imparato a salutare in francese, e a chiedere panini al prosciutto e caffelatte. Sapeva pure che non gli sarebbe mai stato possibile ordinare né burro né uova in alcun modo, perché non avrebbe mai imparato a dirlo, ma il burro lo servivano sempre col pane, e le uova sode erano in vista sul banco e si potevano prendere senza chiederle. Inoltre, dopo tre giorni, il personale di servizio si era familiarizzato con lui, e lo aiutava a spiegarsi. Sicché il venerdì a pranzo, mentre cercava di chiarirsi le idee, ordinò un filetto di vitello con patate fritte e una bottiglia di vino. Allora si sentì così bene che chiese un'altra bottiglia, la bevve fino a metà, e attraversò la strada fermamente risoluto a entrare nell'ospedale con la forza. Non sapeva dove trovare Nena Daconte, ma nella sua mente c'era netta l'immagine provvidenziale del medico asiatico, ed era sicuro di trovarlo. Non entrò dalla porta principale, bensì da quella del pronto soccorso, che gli era sembrata meno vigilata, ma non riuscì ad arrivare oltre il corridoio dove Nena Daconte l'aveva salutato con la mano. Un guardiano col camice schizzato di sangue gli domandò qualcosa passando, e lui non gli badò. Il guardiano lo seguì, ripetendo sempre la stessa domanda in francese, e infine lo afferrò per un braccio con tale forza che lui dovette fermarsi. Billy Sánchez cercò di liberarsene con un espediente da metallaro, e allora il guardiano lo insultò in francese, gli torse il braccio dietro la schiena con un'abile mossa, e continuando a dargli del figlio di puttana lo portò quasi di peso fino alla porta, rabbioso di dolore, e lo buttò come un sacco di patate in mezzo alla strada. Quella sera, dolorante per la batosta, Billy Sánchez cominciò a essere adulto. Decise, come avrebbe fatto Nena Daconte, di ricorrere al suo ambasciatore. Il portiere dell'albergo, che malgrado l'aspetto scontroso era molto servizievole, oltre che molto paziente con le lingue, trovò il numero e l'indirizzo dell'ambasciata sulla guida telefonica, e glieli annotò su un biglietto. Rispose una donna molto gentile, nella cui voce piana e senza spicco Billy Sánchez riconobbe subito la dizione delle Ande. Cominciò presentandosi col suo nome completo, sicuro di impressionare la donna con i due cognomi, ma la voce non si turbò al telefono. La sentì spiegare la lezione a memoria che il signor ambasciatore al momento non si trovava nel suo ufficio, ma che lo aspettavano per il giorno dopo, e comunque non avrebbe potuto riceverlo senza previo appuntamento e solo per un caso speciale. Billy Sánchez allora capì che neppure per quella via sarebbe arrivato a Nena Daconte, e ringraziò per l'informazione con la stessa cortesia con cui gliel'avevano data. Poi prese un taxi e si recò all'ambasciata. Era al numero 22 dell'Avenue des Champs-Elysées, in uno dei settori più tranquilli di Parigi, ma l'unica cosa che colpì Billy Sánchez, come lui stesso mi raccontò a Cartagena de Indias molti anni dopo, fu che il sole era chiaro come nei Caraibi per la prima volta dal suo arrivo, e che la torre Eiffel svettava sopra la città in un cielo radioso. Il funzionario che lo ricevette al posto dell'ambasciatore sembrava appena ristabilito da una malattia mortale, non solo per il vestito di panno nero, il colletto opprimente e la cravatta a lutto, ma anche per la cautela dei gesti e la mansuetudine della voce. Capì l'ansia di Billy Sánchez, ma gli rammentò, senza perdere la dolcezza, che si trovavano in un paese civile le cui norme severe si basavano sui criteri più antichi e più saggi, contrariamente alle Americhe barbare, dove bastava una mancia al portiere per entrare negli ospedali. «No, mio caro giovanotto» gli disse. Non c'era altra scelta che sottomettersi al prevalere della ragione, e aspettare fino al martedì. «In fin dei conti, mancano ormai solo quattro giorni» concluse. «Nel frattempo, vada al Louvre. Ne vale la pena.» Uscendo, Billy Sánchez si ritrovò senza sapere cosa fare in Place de la Concorde. Vide la torre Eiffel sopra i tetti, e gli sembrò così vicina che tentò di raggiungerla camminando sui lungofiume. Ma ben presto si rese conto che era più lontana di quanto sembrava, e che inoltre cambiava di posto a mano a mano che la cercava. Sicché si mise a pensare a Nena Daconte seduto su una panchina in riva alla Senna. Vide passare le chiatte sotto i ponti, e non gli sembrarono barche, ma case erranti dai tetti rossi e dalle finestre con vasi di fiori sul davanzale, e fili di ferro con biancheria stesa ad asciugare in mezzo. Contemplo a lungo un pescatore immobile, con la canna immobile e il filo immobile sulla corrente, e si stancò di aspettare che qualcosa si muovesse, finché non cominciò a far buio, e decise di prendere un taxi per tornare all'albergo. Solo allora si rese conto che ne ignorava il nome e l'indirizzo, e che non aveva la minima idea del settore di Parigi in cui si trovava l'ospedale. In preda al panico, entrò nel primo bar che trovò, ordinò un cognac e cercò di far ordine nei suoi pensieri. Mentre pensava, si vide ripetuto più volte e secondo prospettive diverse negli specchi numerosi alle pareti, e si trovò spaventato e solitario, e per la prima volta dalla sua nascita pensò alla realtà della morte. Ma al secondo bicchiere si sentì meglio, ed ebbe l'idea provvidenziale di tornare all'ambasciata. Cercò il biglietto nella tasca per ricordare il nome della via, e scoprì che sul retro erano stampati il nome e l'indirizzo dell'albergo. Rimase così male impressionato da quell'esperienza, che durante il finesettimana non uscì più dalla stanza se non per mangiare e per spostare la macchina sul marciapiede corrispondente. Per tre giorni cadde senza tregua la stessa pioviggine sporca del mattino in cui erano arrivati. Billy Sánchez, che non aveva mai letto un libro intero, avrebbe voluto averne uno per non annoiarsi disteso sul letto, ma gli unici che trovò nelle valigie della moglie erano in lingue diverse dallo spagnolo. Sicché continuò ad aspettare il martedì, contemplando i pavoni che si ripetevano sulla carta alle pareti e senza smettere di pensare un solo istante a Nena Daconte. Il lunedì fece un po' di ordine nella camera, pensando a quel che lei avrebbe detto se l'avesse trovata in quelle condizioni, e solo allora scoprì che la pelliccia di visone era macchiata di sangue secco. Passò il pomeriggio a lavarla col sapone profumato che trovò nella valigetta, finché non ridivenne come quando l'avevano portata sull'aereo a Madrid. Il martedì si presentò torbido e gelido, ma senza pioviggine, e Billy Sánchez si alzò già alle sei, e attese davanti all'ospedale insieme a una folla di parenti di malati carichi di pacchi di regali e mazzi di fiori. Entrò col gregge, reggendo sul braccio la pelliccia di visone, senza domandare nulla e senza alcuna idea di dove potesse trovarsi Nena Daconte, ma sorretto dalla certezza che avrebbe trovato il medico asiatico. Passò per un cortile interno molto grande, con fiori e uccelli silvestri, ai cui lati c'erano i padiglioni dei malati: le donne, a destra, e gli uomini, a sinistra. Seguendo i visitatori, entrò nel padiglione delle donne. Vide una lunga fila di malate sedute sui letti con la camicia di tela dell'ospedale, illuminate dalle luci grandi delle finestre, e pensò addirittura che il tutto era più allegro di quel che si poteva immaginare da fuori. Arrivò all'estremità del corridoio, e poi lo percorse di nuovo nel senso contrario, fino a convincersi che nessuna delle malate era Nena Daconte. Poi ripercorse la veranda esterna guardando dalla finestra nei padiglioni maschili, finché non credette di riconoscere il medico che cercava. Era lui, infatti. In compagnia di altri medici e di diverse infermiere esaminava un malato. Billy Sánchez entrò nel padiglione, scostò una delle infermiere del gruppo e si piantò davanti al medico asiatico, che era chino sul malato. Lo chiamò. Il medico sollevò lo sguardo desolato, ci pensò un momento e allora lo riconobbe. «Ma dove diavolo si era cacciato?» disse. Billy Sánchez rimase perplesso. «All'albergo» disse. «Qui, all'angolo.» Allora lo seppe. Nena Daconte era morta dissanguata alle 7.10 di sera di giovedì 9 gennaio, dopo settanta ore di sforzi inutili degli specialisti più qualificati di Francia. Fino all'ultimo istante era rimasta lucida e serena, e aveva dato istruzioni affinché cercassero suo marito all'Hotel Plaza Athenée, dove avevano una camera prenotata, e aveva fornito i dati affinché si mettessero in contatto con i suoi genitori. L'ambasciata era stata informata il venerdì tramite un telegramma urgente della sua cancelleria, quando già i genitori di Nena Daconte volavano verso Parigi. L'ambasciatore in persona si era incaricato dei tramiti per l'imbalsamazione e i funerali, ed era rimasto in contatto con la Prefettura di Polizia di Parigi per localizzare Billy Sánchez. Una circolare urgente con i suoi dati personali era stata trasmessa dalla sera del venerdì al pomeriggio della domenica attraverso la radio e la televisione, e durante quelle quaranta ore era stato l'uomo più cercato della Francia. La sua fotografia, trovata nella borsetta di Nena Daconte, era esposta ovunque. Tre Bentley convertibili dello stesso modello erano state localizzate, ma nessuna era la sua. I genitori di Nena Daconte erano arrivati il sabato a mezzogiorno, e avevano vegliato il cadavere nella cappella dell'ospedale in attesa fino all'ultimo momento di trovare Billy Sánchez. Anche i genitori di lui erano stati informati, e si erano tenuti pronti a volare a Parigi, ma infine avevano desistito per via di una confusione di telegrammi. I funerali si erano svolti la domenica alle due del pomeriggio, a soli duecento metri dalla sordida camera d'albergo in cui Billy Sánchez agonizzava di solitudine per l'amore di Nena Daconte. Il funzionario che si era occupato di lui all'ambasciata mi disse anni dopo che lui stesso aveva ricevuto il telegramma della sua cancelleria un'ora dopo che Billy Sánchez era uscito dall'ufficio, e che l'aveva cercato nei bar silenziosi del Faubourg Saint Honoré. Mi confesso che non gli aveva badato molto quando l'aveva ricevuto, perché non si sarebbe mai immaginato che quel colombiano disorientato dalla novità di Parigi, e con un giaccone di pelle così mal portato, avesse a suo favore un'origine tanto illustre. La sera della stessa domenica, mentre lui tratteneva la voglia di piangere di rabbia, i genitori di Nena Daconte avevano interrotto le ricerche e avevano portato via il corpo imbalsamato dentro la bara metallica, e quanti erano riusciti a vederla continuarono a ripetere per molti anni che non avevano mai visto una donna così bella, né viva né morta. Sicché quando Billy Sánchez entrò infine nell'ospedale, il martedì mattina, era ormai terminato il funerale nel triste cimitero di La Manga, a pochi metri dalla casa in cui loro avevano decifrato le prime chiavi della felicità. Il medico asiatico che mise al corrente Billy Sánchez della tragedia volle dargli qualche pillola tranquillante nella sala dell'ospedale, ma lui rifiutò. Se ne andò via senza salutare, senza nulla per cui ringraziare, pensando che l'unica cosa di cui aveva urgente bisogno era trovare qualcuno cui rompere la faccia a colpi di catena per rifarsi della sua disgrazia. Quando uscì dall'ospedale, non si accorse neppure che stava cadendo dal cielo una neve senza tracce di sangue, i cui fiocchi soffici e nitidi sembravano piccole piume di colomba, e che per le vie di Parigi c'era aria di festa, perché era la prima grande nevicata da dieci anni a quella parte. 1976.